AGI - A due mesi dalla pubblicazione, “Spatriati” di Mario Desiati (Einaudi), prova di scrittura limpida e rara tra le migliori uscite di quest’anno, è e rimane la chiave di lettura per comprendere - o avvicinarsi a farlo, quantomeno - una generazione mai compresa, mai inquadrata.
Risorse troppo strette rispetto a quelle di cui disponevano i genitori, figli del boom economico e demografico, orizzonti troppo vaghi rispetto a quelli che si aprono davanti agli occhi dei fratelli minori, la generazione Z: incasellati in una rassicurante fissità i primi, abili surfisti della fluidità i secondi, a finire incastrati nella terra di mezzo sono rimasti i trentenni.
Dimenticati ed esclusi da gran parte delle misure di sostegno al reddito, in molti casi anche da quelle di sostegno al lavoro, gli ormai ex ragazzi della generazione degli anni 80 in un limbo erano e lì sono rimasti: stabili solo nell’essere precari, tanto da farne uno status.
Un manifesto, quello dei non più giovani non ancora adulti mai quieti, che Desiati riassume in un’espressione dialettale che vuol dire tutto questo, e altro ancora. Sono spatriati perché sradicati, i protagonisti Francesco e Claudia, Veleno nel cognome di lui, candore nell’educazione di lei, certi solo d’essere insieme, d’essere l’una la radice dell’altro: l’unica, anche se sempre in fuga.
Strazia e cura, questo affresco di Desiati, perché non ha pietà nel mostrare una generazione allo specchio: così sono - tutti - i figli degli stabili, dei posti fissi. Irregolari, instabili, non inquadrabili, mai definibili, mai “sistemati”. Spatriati. Ne abbiamo parlato con l’autore.
L’Italia ha registrato il peggior dato di decrescita demografica dal dopoguerra, nel 2019. È questo, la generazione degli Spatriati: una generazione crescita zero, quella che fugge famiglia e responsabilità?
“No, lo Spatriato non fugge, ma rinnova e reinventa delle nuove forme di famiglia, famiglie spatriate. Irregolari, cioè, fuori dalle norme. I due protagonisti reinventano delle nuove forme di famiglia che in Italia non sarebbero considerate tali, non ancora, ma che nei Paesi un po’ ‘più evoluti’ sono già codificati in quei nuclei familiari che da noi verrebbero chiamati ‘arcobaleno’, un’espressione che dice tutto e niente e che in realtà indica solo persone che si amano e che crescono un figlio all’interno di una relazione”.
C’è cioè una contraddizione, un’ipocrisia, in quella che viene chiamata tradizione?
“I miei due protagonisti vengono da famiglie borghesi, ma a loro è mancata una condizione di concordia e di amore perché le loro famiglie, normalissime, come tante altre hanno vissuto un’esperienza comune fatta di non detti, nel caso specifico un adulterio dei genitori che fa esplodere la situazione”.
Ma che li salva.
“La loro identità cambia quando conoscono una verità che li unirà per sempre perché diventa il legame tra di loro e la loro forza. Non hanno segreti, anche se poi ci sono sempre parti oscure: per questo cito il mito di Amore e Psiche, amanti nel buio. Una dichiarazione d’amore in assenza: amo il tuo buio perché è parte di te”.
Altro tema d’attualità, oltre quello delle ‘nuove famiglie’ portato in auge dal dibattito sul ddl Zan, è quello delle migrazioni e del lavoro, soprattutto dal punto di vista degli italiani del Sud. Lo spatriato Francesco in qualche modo ricalca l’autore?
“Sono più Claudia che Francesco. Lui vive una rivoluzione lenta, anche nella sua relazione con il maschile”.
La generazione degli spatriati si è fatta carica di una rottura tra la generazione dei posti fissi e quella dei fluidi che sono giustificati a esserlo, liberati dall’obbligo di dover dimostrare che lo cercano, il posto fisso?
“Abbiamo tradito questa aspettativa. Spatriati raccoglie questo conflitto che è plasticamente visibile. Dal punto di vista del lavoro l’ho sempre trattato perché l’ho vissuto: sono nato in un mondo con degli ideali sociali di fissità, di stabilità dovuta a un posto di lavoro definito che ti dà una tua identificazione nella società, e poi a cascata il resto, la famiglia, la casa, la città. Ora siamo in una fase di rottura economica, che ha cambiato il mondo anche nella comunicazione: siamo cresciuti in un mondo in cui ancora mandavamo le lettere agli amici di penna. Dieci anni dopo avevamo una connessione internet che ci ha permesso di chattare in tempo reale con persone da ogni parte del mondo, e poi ancora siamo diventati la generazione Easy jet. Con un trolley e un pc possiamo vivere nel giro di un anno in tre capitali cambiando tre lavori, anche se vuol dire vivere di poco al di sopra della soglia di povertà, svolgendo mansioni per le quali siamo iperqualificati”.
È il caso della sua protagonista, ma è anche il tema dell’emigrazione intellettuale: questa è la prima generazione di italiani emigrati che non mandano soldi a casa, ma che li chiedono alle famiglie.
“Per anni tanti sono andati a fare i camerieri a Londra per poi intraprendere altre carriere. Certi non ce l’hanno fatta e sono tornati, cosa che oggi viene vista come un fallimento. I personaggi del libro anticipano un’altra possibilità: che si possa cioè avere una preparazione da manager, un lavoro iperqualificato, e scegliere di lasciare tutto per essere più liberi. Felici con un lavoro part time, da inserviente. Io stesso non mi sono vergognato, dopo che ero stato dirigente nel mondo editoriale, di ricominciare da zero all’estero. È diverso dalla decrescita felice, perché anche lì resta l’idea della rinuncia. L’idea nuova è che si possa essere felici con meno. Questo in Paesi come la Germania è possibile grazie anche a un sistema statale che lo permette, e a una rete interpersonale di sostegno tra le famiglie. In Italia non ancora. Siamo nati con una idea di mondo, e il mondo è cambiato mentre noi ci stavamo chiedendo cosa stesse succedendo. Per me è stato un punto di svolta il G8 di Genova, di cui ricorre il ventennale: il momento in cui ci siamo resi conto che le risorse stavano per finire”.
Una generazione che ha tradotto il fallimento in opportunità?
R. “E’ un’occasione di libertà”
La fluidità torna nella lingua: la prima parte del libro è titolata in dialetto pugliese, la seconda in tedesco, rispecchiando i due teatri dell’azione. Sono due vite?
“Sfuma certi significati: la lingua rappresenta l’anima. Il dialettale spatriati è intraducibile: se non avesse la sfumatura di ‘liberati, irregolari’, sarebbe banalizzato in ‘expat’. In tedesco uscirà con un sinonimo di ‘sradicati’ o ‘inquieti’. Il dialetto è polisemico, ogni parola racchiude un mondo, mentre il tedesco riflette una forma mentale schematica, più rigida. Uno è liquido, l’altro è denso”.
C’è una certa fissità anche nella mentalità di parte d’Italia.
“Nel libro emerge il dolore di chi si rende conto di essere cresciuto in un mondo fatto di schemi patriarcali. Ma è un’occasione: è il grimaldello che serve per diventare sé stessi”.