AGI - Nel 1981 Franco Battiato incide trentuno minuti di musica, suddivisi in sette brani destinati a spaccare (e per sempre) in due la storia del nostro cantautorato. Perché prima che uscisse “La voce del padrone”, l’album che raccoglie queste sette tracce, il pop italiano orbitava dentro rigidi recinti legati al genere, alla melodia, a una determinata poetica.
Battiato fu certamente il primo, e probabilmente il migliore in assoluto, a riuscire a rendere musica estremamente sofisticata in pop accessibile a chiunque mascherando punk rock e new wave, due generi che caratterizzeranno la storia della musica mondiale, specie straniera, a cavallo tra ’70 e ’80.
I sette brani de “La voce del padrone”, infatti, sono entrati nella storia del nostro paese e nelle vite di ognuno di noi con la stessa facilità con la quale anni prima erano entrati Battisti e Mogol, giusto per citare il caso più fragoroso. Ma con “La voce del padrone” parliamo di cantautorato decisamente più impegnato, con citazioni altissime, che saranno marchio di fabbrica di tutta l’opera di Battiato. Citazioni riportate ad essenza terrena, quasi spicciola, quasi comica.
Le copie vendute de “La voce del padrone”, oltre un milione per la prima volta nella storia della nostra discografia, sono la dimostrazione di quanto Battiato sia riuscito a trovare un codice non solo per produrre poesia, arte, cultura, tutti concetti che col passare delle stagioni si abbineranno sempre meno alla musica, ma soprattutto per venderle e farle apprezzare dal larghissimo pubblico. Un pubblico che era il più largo fino a quel momento. E parliamo di ‘appena’ quarant’anni fa.
Il riferimento del titolo “La voce del padrone” alla storica casa discografica nel 1981 era più immediato. Senza tempo invece il riferimento più concettuale a Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo, scrittore, mistico, musicista e maestro di danze armeno che, con la sua visione del ‘padrone’, in pratica declinò il sufismo tipico della cultura orientale nella nostra che è iper consumistica.
Un'opera che influenzò un’intera generazione di intellettuali tra cui Peter Brook, Robert Fripp e perfino il politico e imprenditore Gianroberto Casaleggio. Non è nemmeno un caso invece che “La voce del padrone” sia una delle opere dello scrittore polacco fantascientifico Stanisław Herman Lem, datata 1968.
Con questo disco, che per "Rolling Stones" è il secondo italiano migliore della storia e che ai tempi fu primo in classifica per diciotto settimane, Battiato arricchisce anche la collezione di strumenti utilizzati: con vibrafono, organo Hammond, sezioni di archi, sintetizzatore, sequencer, il suono è più orchestrale, quindi imponente, quasi definitivo. Si tratta di un disco perfetto, non una nota fuori posto.
I sette brani entreranno tutti nella lista degli evergreen della nostra musica. Da “Bandiera bianca”, che con quel ritmo tendente all’allegretto rade al suolo buona parte della società dell’epoca che non si distacca in fondo poi così tanto da quella dei giorni nostri come facilmente appurabile quarant’anni dopo l’uscita del disco.
Una società ancora infestata da “idioti dell'orrore” e “programmi demenziali con tribune elettorali” e noi tutti siamo ancora “pronipoti di sua maestà il denaro”. Perfino Bob Dylan viene ‘ridotto’ a “Mr. Tamburino” e, senza alcuna vergogna, Battiato canta, dichiara, che “A Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata; a Vivaldi l'uva passa, che mi dà più calorie”.
Praticamente tutti bocciati, non passa nessuno, nemmeno lo stesso Battiato, che si prende in giro svelando che “c'è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero”. Lo sventolio della bandiera bianca, dunque, citazione de “L’ultima ora di Venezia” di Arnaldo Fusitano, non è che la naturale resa al nostro stesso disastro.
Anche “Cuccurucucù”, in qualche modo, tende a disarcionare alcune certezze in tema di melodie che hanno fatto la storia della musica. E lo fa a partire proprio da quella “Cucurrucucú paloma”, canzone del messicano Tomás Méndez del 1954, adottata in seguito praticamente in tutto il mondo, per proseguire con Nicola Di Bari (“Il mondo è grigio/il mondo è blu”), Milva con “Il mare nel cassetto” e perfino l’intoccabile Mina con “Le mille bolle blu”.
Battiato non lo dice, non ne ha bisogno, ma basta la semplice citazione non solo per smontare qualsiasi caposaldo culturale, ma anche per mettere l’ascoltatore dalla propria parte a puntare il dito con estrema ironia. Battiato nomina un’opera e l’opera decade da quel piedistallo sul quale la storia l’ha piazzata.
Il finale di “Cuccurucucù” esplode con quell’inglese forzatamente maccheronico in un mare di citazioni che coprono “Lady Madonna” e “With a Little Help from My Friends” dei Beatles, “Ruby Tuesday” dei Rolling Stones, “Let's twist again” di Chubby Checker e “Just Like a Woman” e “Like a Rolling Stone” di Bob Dylan; in pratica le radici del pop moderno.
È in “Centro di gravità permanente” che invece Battiato si concentra sulla spiritualità, sul proprio personale smarrimento di uomo d’altri tempi incastrato in una società dentro la quale evidentemente non si rispecchia ma che riesce ad osservare senza spocchia: il nostro infatti non è certamente, (certamente non più) un mondo di "vecchie bretoni" “con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù”.
Ma è quello l’immaginario mistico, forse anche stimolato dalla passione per il pensiero di Gurdjieff, che popola la mente del cantautore siciliano. Battiato si perde nella sua “Summer on a Solitary Beach” che diventa magicamente e straordinariamente una nuova terra, inventata ma tangibile, che appartiene a tutti, tant’è che sono tanti i musicisti che riprenderanno in mano questa canzone, come se fosse un rifugio musicale sicuro, la Mecca immaginaria dove ognuno può ritrovare ciò che ha perso partendo dal passato, dalla propria personalissima essenza.
Anche ne “Gli Uccelli” torna in qualche modo l’approccio alla filosofia di Gurdjieff. Qui Battiato vola in alto con le parole, con quella melodia così eterea, ma invitando, comunque, sempre al pensiero, all’attenzione, alla concentrazione, giusto per non perderci qualcosa.
Che poi in qualche modo, è il concetto che porta avanti in “Segnali di vita”, quelli che rischiamo di perderci, nel rimanere indietro in quelle “meccaniche celesti” che col passare del tempo si fanno sempre più complesse da capire. Non è un caso che il volo di Battiato si concluda in “Sentimiento nuevo”, che rappresenta un inno all’umana passione, la natura che fa di noi persone meno mediocri.
È una serenata alla ricchezza umana che alberga dentro tutti, una canzone d’amore per tutti gli uomini e per gli uomini di ogni tempo, dai prealessandrini ai greci e latini. Un amore antropologico “che mi tiene alta la vita” in ogni sua forma, compreso lo “shivaismo tantrico di stile dionisiaco”.
Riferimenti altissimi che atterrano in un verso di una semplicità e bellezza immortali: “ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo”, come un pittore che finisce un’opera e la guarda soddisfatto. Non è un caso, infatti, che Battiato chiuda l'opera esattamente con quella frase che è un po' quello che l'ascoltatore non può non pensare alla fine: è bellissimo perdersi in quello che effettivamente, più che un disco, è un incantesimo.