AGI – Indizi per comprendere storie di artigiani ma anche storie di vita. Non solo elementi per tutelare e preservare una straordinaria testimonianza dell’antico. Il restauro del mosaico della battaglia di Isso, capolavoro che pesa 7 tonnellate, ha una superficie di eccezionale estensione (5,82 X 3,13 metri) ed è costituito da milioni di tessere, è appena all’inizio.
La sala che lo ospita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli è piena di persone, anche se il museo è chiuso. Il direttore scientifico dei lavori, Antonio de Simone, archeologo e docente universitario, spiega all’AGI: “Partiamo da indagini già fatte in passato che ci danno elementi di base, ma dobbiamo agire ancora per la identificazione e caratterizzazione dell’opera in modo da poter intervenire per la sua conservazione. Sapevamo da tempo che su questo fronte era necessario intervenire”.
Ci sono infatti analisi “ripetute a distanza di circa due anni e abbiamo quindi la certezza che si sono accentuate alcune criticità, ma anche una visione di come e quali. Solo “l’ispezione diretta sulla superficie potrà dirci di più”.
“Con la caratterizzazione dell’opera ci aspettiamo di capire meglio i materiali che compongono il mosaico – esplicita ancora De Simone - già le prime indagini ci dicono che i materiali pregiati di cui sono fatte le piccole tessere in parte sono provenienti dall’Italia e in parte da paesi che secoli fa già commerciavano con Roma, quelli cioè dell’ Africa settentrionale. Ma ci sono anche pietre che provengono da cave greche”. “Noi vorremmo capire bene anche come si sono generati lacune e distacchi di tessere, perché sarebbe un ulteriore contributo alla storia di Pompei”, aggiunge.
Il mosaico infatti, trovato nel 1831 nell’imponente atrio della domus del Fauno della Regio VI, “era in quella casa da almeno 170 prima da essere seppellito durante l’eruzione del Vesuvio dell’ottobre del 79 d.C. - dice l'archeologo - e aveva subito diversi traumi. Anzitutto quelli derivanti da essere un pavimento. Possiamo leggerne tracce a esempio nella parte in basso a sinistra di chi guarda, dove, sotto una vasta lacuna, c’è parte di uno scudo che mostra una qualità di tessere e lavoro diverso da quello del centro della raffigurazione, con i volti fieri di Alessandro Magno e del re persiano Dario”.
L'opera, dunque, aveva subito un restauro anche in età romana, e compiuto da maestranze il cui lavoro mostra come una più abile generazione mosaicisti fosse venuta meno. “I danni al mosaico prima dell’eruzione in buona parte sono connessi non solo alla naturale usura, ma anche al terremoto del 62 d.C. e poi a un lungo sciame sismico negli anni, con punte di forti scosse”, racconta De Simone.
I lavori su Pompei dal 1985 nelle Regio I e II "ci hanno messo in contatto con questo dato spiegabile anche dal punto di vista vulcanologico. La prima ‘botta’ è stata più evidente con il terremoto, ma, mentre il magma risaliva nel vulcano, le scosse continuarono per 17 anni. Ora, facendo i lavori di restauro, immaginiamo di trovare anche nelle criticità presenti nel mosaico evidenze anche impercettibili di questi passaggi di eventi”.
“Noi stiamo lavorando da 4 mesi e quello che faremo non sarà distruttivo. Estrarremo indizi più che prove, ma potremmo capire dietro le toppe cosa c'è”, indica lo studioso. Il mosaico, che racconta la schiacciante vittoria del giovane re macedone sugli avversari storici della Grecia nel novembre del 333 a.C., punto di partenza delle conquiste che daranno vita al mondo ellenistico, nell'Archeologico di Napoli è esposto nell’allestimento voluto nel 1916 da Vittorio Spinazzola, in verticale al muro, in uno spazio definito da alcune colonne dell’atrio della domus, contornato dai mosaici che decoravano le soglie, privi già del loro supporto originario.
“Così resterà probabilmente – anticipa De Simone – una sorta di quadro, perché in questo modo si percepisce meglio la formidabile composizione del disegno, non sappiamo ancora se con supporto moderno o mantenendo l’attuale”.
Le operazioni avviate da pochi giorni, sono prelusive al distacco dal muro, ad aprile, dopo aver protetto la superficie di tessere con un tavolato ligneo di protezione. A quel punto gli archeologi potranno lavorare sul retro utilizzando appositi smart glass, una tecnologia fornita da Tim, che consentiranno di monitorare costantemente la corrispondenza tra la zona di intervento e la relativa superficie non visibile, proiettando in scala 1:1 la parte frontale del mosaico su una apposita superficie, un mezzo che renderà anche fruibile dal pubblico quanto accade nel cantiere; ma pure di avere in proiezione disponibili una serie di parametri geofisici desunti dalle indagini fatte nel 2015 e nel 2018, nel primo caso da Iperion Ch.it e del Cnr-Isti di Pisa, e nel secondo dall’Università del Molise e ancora dal Cnr.