AGI - La ricorrenza dei cento anni della nascita di Leonardo Sciascia fa risuonare l’eco della sua voce di illuminista indipendente, che manca da 32 anni, dal 1989, alla cultura e alla discussione pubblica italiana. Il torto più grande che gli si potrebbe fare sarebbe di ghettizzarlo nell’etichetta di mafiologo. Perché se di mafia Sciascia scrisse, e molto, e con acume impietoso, non può ridursi a quello il centro della sua opera. Fu, se mai, l’epicentro della sua riflessione assidua sul presente, sulla società, sulla politica, di quella ricerca della verità delle cose che lo scrittore ha praticato incessantemente, osservando tutto da una Sicilia assunta come paradigma, “come metafora” diceva lui, delle malattie italiane.
L'arte di contraddire
“Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: ‘Ha contraddetto e si è contraddetto’, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante ‘anime morte’, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano”. In questo epitaffio che Sciascia suggeriva per se stesso, e che è tratto appunto da “La Sicilia come metafora”, c’è una dichiarazione programmatica alla quale è rimasto sempre fedele. Contraddire è il mestiere dell’intellettuale, e Sciascia lo esercitò senza risparmiare nessuno, pagando spesso il prezzo di maliziosi fraintendimenti. Amava Voltaire (“Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” ne è la più esplicita attestazione), e per questo aspirava al candore del bimbo che dice “il re è nudo”, a dire la verità che è davanti a tutti e tutti fingono di non vedere.
Così è fin dall’esordio, in versi, con le “Favole della dittatura” che impressionarono Pier Paolo Pasolini. Così è nei suoi romanzi più noti, dove l’impalcatura del giallo riveste un mistero che non mai è tale. Dal primo, “Il giorno della civetta”, del 1961, per passare “A ciascuno il suo”, a “Todo Modo”, fino all’ultimo, “Una storia semplice”, del 1989. I colpevoli veri sono noti e impuniti, la società si corrompe nella convenzione delle apparenze e delle convenienze. Nei 28 anni che separano il primo romanzo dall’ultimo, le trame si fanno più nere man mano che il pessimismo di Sciascia si fa più lucidamente profondo, e i personaggi positivi, gli eroi, spariscono progressivamente dalla scena. In “Una storia semplice” non ce ne è più nessuno.
Il pessimismo siciliano e l'impegno politico
“Come si può essere ottimisti in un paese in cui il futuro non esiste?”, disse una volta Sciascia alla giornalista Marcelle Padovani, a proposito della peculiarità del dialetto siciliano che nella coniugazione verbale è privo del modo futuro e lo surroga con un eterno presente.E nel presente Sciascia si immerse interamente, fino a calarsi nell’impegno politico. Fu prima da consigliere comunale di Palermo, eletto nel 1975 come indipendente del Pci, secondo per preferenze dopo il leader regionale dei comunisti, Achille Occhetto, ma si dimise appena due anni dopo, in dissenso con il “compromesso storico”. Poi da deputato del Partito Radicale, che nel 1979 lo candidò sia al Parlamento europeo sia alla Camera.
Sciascia ottenne entrambi i seggi, e optò per Montecitorio, dove si sarebbe impegnato nella commissione sul caso Moro, uno dei lampanti misteri italiani oggetto per anni della sua analisi, fin da subito (“L’affaire Moro” è del 1978). In Parlamento rimase per una legislatura soltanto, e si ricorda la sua polemica con il ministro dell’Interno Virginio Rognoni sulla denuncia di torture inflitte ai brigatisti rossi dopo il sequestro del generale americano James Lee Dozier.
I "professionisti dell'antimafia"
Sciascia era un garantista sincero, insofferente alle ipocrisie. “In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo”, disse in Aula a Rognoni. Né ci si poteva attendere altro da chi non aveva esitato a smascherare le imposture dell’infinita emergenza antimafia con il celebre articolo apparso sul ‘Corriere della sera’ il 10 gennaio del 1987. Il titolo divenne un luogo comune, “I professionisti dell’antimafia”.
Scriveva tra l’altro Sciascia: “Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro”.
Quell’articolo fu brandito, in quei giorni, da chi era interessato ad attaccare i magistrati di Palermo, a cominciare da Giovanni Falcone. Ma Sciascia non si lasciò arruolare: “La mafia si combatte con il diritto”, disse. Ci credeva, non fu creduto. Né ascoltato. Lo consolava certamente Voltaire, del quale ricordava: “Voltaire diceva che la più grande sventura per lo scrittore, non è quella di essere invidiato dai colleghi, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti, ma di essere giudicato dagli imbecilli, i quali arrivano lontano”.