AGI - Al posto giusto nel momento giusto. Difficile dire quale mix di abilità, tenacia e fortuna porti un fotografo all'appuntamento con l'attimo in cui la cronaca diventa storia. Ma se quella 'magia', nell'arco della carriera, si ripete tante volte, allora quel fotografo è davvero grande. Grande come Marcello Geppetti, il re dei paparazzi romani - ma per lui, come per altri colleghi, l'etichetta sfornata da Federico Fellini appare davvero troppo stretta - che ha raccontato per immagini una parte importante delle vicende italiane a cavallo degli anni tra '60 e '70.
A ricostruirne la parabola umana e professionale è ora Vittorio Morelli in 'Fotoreporter. Marcello Geppetti da via Veneto agli anni di piombo' (edizioni All Around), un documentatissimo viaggio a ritroso in una carriera iniziata da fattorino in un quotidiano della capitale e continuata, scatto dopo scatto, alternando l'impegno lavorativo a quello sindacale, con la lunga, difficile battaglia che solo nel '76 sarebbe approdata all'ammissione dei fotoreporter nell'Ordine dei giornalisti.
Reflex al collo, sigaretta tra le labbra, la Vespa lanciata all'inseguimento dello scoop di turno, Geppetti - 'emigrato' da Rieti all'inizio degli anni '50 - diventa presto membro militante del gruppo dei fotografi d'assalto romani (gli eredi degli 'scattini' che vendevano foto ai turisti, spesso presi di sorpresa, di fronte ai monumenti della città eterna). Ed è lui, con e più di altri paparazzi celebri - uno su tutti, l'amico Tazio Secchiaroli - a costruire a colpi di flash il mito della Dolce Vita: Anita Ekberg che si difende dai fotografi armata di arco e frecce davanti alla sua villa romana, Audrey Hepburn che entra in una panetteria del centro, Brigitte Bardot sul set de 'Il disprezzo'.
Nel mirino di Geppetti finiscono tutte, ma proprio tutte, le star di quegli anni, da Claudia Cardinale a Sophia Loren, da Anna Magnani e Jane Mansfield, da Jane Fonda a Jackie Onassis. Ma è un bacio galeotto, anzi il "bacio dello scandalo" al sole di Ischia tra Liz Taylor e Richard Burton a valergli l'inserimento nella hit delle 28 immagini più famose della Pop Art.
E' il 1962 e - come racconterà poi il figlio Marco - Geppetti rifiuta i 12 milioni (cifra astronomica per quel tempo) che il legale di Burton gli offre per ritirare le foto: "Io lavoro per la stampa, non per i privati", la sua risposta: "Cosa si direbbe di me, in giro?". Geppetti non documenta solo le vite più o meno artificiali dei grandi divi del cinema o (più avanti) della tv.
Con il suo bianco e nero fissa con implacabile realismo le sequenze di stagioni che segnano la trasformazione del Paese: il '68, le contestazioni operaie, il conflitto sociale, il terrorismo. E' a Valle Giulia, dove la polizia si scontra con gli universitari; alla Sapienza di Roma per la 'battaglia' tra il Movimento studentesco e i neofascisti; in via Fani - come sempre tra i primi ad arrivare - dove un commando delle Br per rapire Aldo Moro ha fatto strage della sua scorta.
Un rapporto, quello con la 'nera', che nel caso di Geppetti aveva avuto un imprinting tragico, in una notte d'estate del '59, la notte dell'incendio all'Hotel Ambasciatori: le drammatiche immagini delle donne che cercavano di scampare alle fiamme gettandosi nel vuoto gli avevano attirato critiche ingenerose e persino un sospetto di scomunica da parte delle gerarchie ecclesiastiche, a lui che era stato tra i primi a chiamare i soccorsi.
Geppetti se ne va troppo presto, nel '98, a 64 anni, stroncato da un infarto mentre se ne sta seduto sul divano di casa a guardare il festival di Sanremo dopo l'ennesima giornata passata al lavoro nel redivivo 'Momento Sera'. Qualche mese dopo, muore anche Secchiaroli. L'anno prima David Schonauer, l'editore di "American Photo", aveva definito proprio Geppetti e Secchiaroli "i fotografi piu' sottovalutati della storia".
Mentre New York Times e Newsweek avrebbero paragonato Geppetti a Henri Cartier-Bresson e a Weegee. Di lui restano un archivio sconfinato, più di un milione di negativi, e il ricordo indelebile di chi gli ha voluto bene. I suoi scatti - scrive nella prefazione Paolo Conti, giornalista del Corriere della Sera, che con Geppetti lavorò agli esordi - sono "diversissimi tra loro ma accomunati dallo stesso stile, da una identica estetica. La pura e assoluta verità, la mancanza di qualsiasi compiacimento. Nessuna finzione".