“Mio padre non ha mai detto che la malattia mentale non esiste”, racconta Alberta Basaglia
“La malattia mentale non esiste” è una frase che Franco Basaglia non ha mai pronunciato. A ribadirlo, con forza e un filo di stanchezza, è la figlia Alberta, ospite del Salone del Libro di Torino in un incontro dedicato ai 40 anni dall’approvazione della legge 180, che porta il nome del padre Franco, e che permise di riformare l'organizzazione dell'assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, superando il sistema dei manicomi. “Una noiosissima e ingiusta credenza” che spesso viene usata da tutti quelli che provano a screditare le parole e le teorie del neurologo e psichiatra veneziano “e che iniziano sempre dicendo: ma suo padre diceva che..”.
Sono giorni in cui si scrive tanto di quell’uomo realista e geniale che era suo padre. “Forse anche troppo e in maniera assurda. Tra qualche mese non lo farà più nessuno. Ma va bene così: è importante che si dicano e si ricordino certe cose”.
Alberta Basaglia ricorda poi l’infanzia di quegli anni, raccontata nel libro Le Nuvole di Picasso, scritto insieme a Giulia Raccanelli “perché avevo paura di non riconoscere i limiti, nel raccontare troppo o troppo poco”. Un’opera nata proprio dalle domande dei più piccoli, con cui Alberta Basaglia lavora, e dal tentativo di provare a ripercorrere fatti già noti con i loro stessi occhi: “Credo che quella storia sia servita per ricordare a tutti quelli che non lo sanno cosa c’era prima della legge 180 e quanto è stato divertente e avventuroso, da bambini, vivere la distruzione dei manicomi”.
La cartella clinica come racconto
L’incontro è iniziato con la presentazione di due libri che hanno indagato a fondo la situazione dei manicomi attraverso l’analisi delle cartelle cliniche di chi veniva internato. Il primo, Malacarne di Annamaria Valeriano, è uno studio sulle identità femminili che venivano rinchiuse in manicomio durante l’epoca fascista. Un testo in cui i comportamenti “eccessivi” delle donne in società erano giudicati come esempio di devianza. Quelle che avevano un comportamento esageratemente visibile, o rompevano codici patriarcali, venivano internate e identificate come anomale, immorali, disubbidienti e altezzose. E in gran parte dei casi gli aggettivi più usati per descriverle sono: erotica, ciarliera, loquace, mendace, incapaci di assolvere ruoli che la società gli aveva assegnato: “Se non ci fosse stata la rivoluzione Basaglia, dice l’autrice, non avemmo potuto studiare le cartelle cliniche e eleggerle a oggetto di studio. Avremmo perso un grande patrimonio”.
Il secondo, I tredici canti di Anna Marchitelli, invece è un libro “in cui ho voluto dare voce ai reclusi, riportare il loro ultimo grido di verità. La cartella clinica offre una verità che è filtrata dai medici ma non rivela qual è la situazione del paziente prima della reclusione e il contesto in cui quell’internamento è stato deciso. “Sono 13 folli con storie particolari. Architetti, inventori, anarchici, intellettuali e il mio desiderio è stato quello di liberarli dall’incubo in sono stati costretti a vivere”.
La speranza Basaglia
A ricordare la figura e il ruolo ricoperto da Franco Basaglia ci ha pensato il politico e sociologo Luigi Manconi che ha sottolineato l’importanza delle “Conversazioni brasiliane”, l’opera uscita nel 1979, un anno dopo la legge 180, ma che racchiude le chiavi per entrare nelle questioni che la legge 180 aveva sollevato. Un passaggio in particolare viene citato da Manconi: “Anche se abolissimo i manicomi, anche se rendessimo questa società accogliente, solidale e aperta, la malattia mentale e l’angoscia ad essa collegata, non sparirebbe”. Tutto quello che, espresso in forma patologica, può dare vita a disturbi mentali è parte della natura umana e può far parte della sua vita. Non può essere superata perché è nel destino dell’uomo. Quella che l’ex senatore del Partito Democratico riconosce è una “concezione tragica dell’esistenza umana” che è propria di tutti i grandi riformatori e pensatori umani.
Manconi, infine, identifica anche una convenzione teorica e una prassi terapeutica che chiama “speranza Basaglia” e che consiste nel cercare, con pazienza infinita e attraverso un lavoro quotidiano profondo che va anche incontro a sconfitte e arretramenti, quel poco o tanto di responsabilità e autonomia che sopravvive anche nel folle. “Basaglia usa tantissimo il termine “folle”. Non amava scendere a compromessi con il linguaggio”. L’intervento del sociologo sardo si chiude con un monito: “Non pensate sia un discorso che appartiene a un lontano passato. Di quella drammatica realtà sopravvive, oggi, in Italia, una quota significativa. Basta citare i casi di Franco Mastrogiovanni e Andrea Soldi per capire che non si tratta di retaggi di epoche oscure ma di elementi del moderno"