T ash Aw, scrittore sino-malese, 45 anni, nato a Taipei, cresciuto a Kuala Lumpur. La sua è una famiglia di cinesi immigrati: parla sei tra lingue e dialetti, ha studiato a Cambridge e vive a Londra. Oggi fa i conti con il passato della sua gente. Vuole ricostruire le loro - le sue – radici. Il primo capitolo di un romanzo di vita. Spiegare come un cinese immigrato si adatti pur restando sé stesso. Forse i nonni che fuggono dalla Cina, negli anni ’20 del secolo scorso, verso Singapore per approdare in Malesia – sono loro gli “Stranieri su un molo” che hanno dato il titolo all’ultimo libro tradotto in Italia (Addeditore, 2017) – portano con sé quel mondo oggi perduto, cancellato e poi ricucito. Quando tutto ancora deve accadere. Prima del comunismo. Prima della rivoluzione. Prima che la Cina diventasse il gigante di oggi. “In Paesi come Singapore e la Malesia, dove le vecchie comunità prerivoluzionarie non sono state sottoposte all’omogeneizzazione del comunismo, queste sofferenze sono più marcate e addirittura celebrate”.
Cosa significa sentirsi straniero ovunque, anche di fronte ai tuoi genitori
Raccontare l’identità della Cina. Un cinese di Pechino parla un dialetto diverso da uno di Shanghai. Senza l’utilizzo della lingua ufficiale, il mandarino, e la scrittura ideografica, tra i due non c’è possibilità di comprensione. Eppure sono entrambi cinesi e probabilmente convinti di conoscere tutto l’uno dell’altro. Appartengono alla medesima cultura, ma provengono da storie diverse. Se sei migrato in Asia trovare una sintesi è più complicato. Narrare questa diversità identitaria è alla base della ricerca letteraria di Tash. Ovunque in giro per il mondo gli chiedono “da dove vieni?”. A furia di rispondere a questa domanda e di sentirsi ovunque diverso, straniero, ha deciso di trasformare la risposta in un piccolo ma intenso romanzo. Eppure ancora oggi gli capita di rinunciare a spiegare. Perché se sei malesiano con genitori cinesi e sei cresciuto con due nonni che parlano dialetti diversi perché nati in province diverse della Cina, e oltre al malay parli anche cantonese e mandarino, perché nella diaspora funziona così (gran parte dei cinesi arrivano dal sud della Cina), ecco: spiegare da dove arrivi non è semplicissimo.
Oggi un'immigrazione brutale e violenta
Un giorno un tassista di Shanghai lo sente parlare mandarino con accento straniero e gli chiede “da dove vieni?”, Tash inizia a spiegare una storia che per l’interlocutore è difficile da seguire: “Suan le (算了), lascia stare, sei comunque cinese”. Straniero. Ma cinese. Sintesi pratica. E in quel momento arriva la pace: un sentimento di conforto: eccomi, sono io. Ecco: il punto di questo libro. La cultura cinese è ricca di dialetti e di tradizioni. Non esiste quell’unica Cina propinata sia a Oriente che a Occidente. Lettore avvertito: “Un rapido appunto: hokkien, hainanese; aggiungi cantonese, hakka, teochew. Le diversi radici regionali degli immigrati cinesi nel Sud Est Asiatico. Tienile a mente; sono importanti per questa storia”. Tash racconta tutto. Spiega ad esempio il senso di colpa che accompagna il tuo riscatto quando l’istruzione ti rende diverso da un cugino che non ha potuto studiare, e ti allontana da un padre che a un tratto parla una lingua diversa dalla tua. E arriva la resa dei conti. Tash la descrive con dolcezza. In questa intervista spiega come sia brutale l’immigrazione di oggi, che sfrutta i corpi senza dare futuro agli stranieri, e quanto invece al tempo dei suoi nonni migrare fosse l’inizio di una storia meravigliosa. In un mondo che non esiste più.
“Internazionale a Ferrara” è il festival di giornalismo organizzato dal settimanale “Internazionale” e dal comune di Ferrara. L'undicesima edizione si tiene dal 29 settembre al primo ottobre e sarà dedicata al tema della prospettiva intesa come opportunità e lungimiranza. Sabato 30 alle 12:00 Tash Aw dialogherà con Goffredo Fofi presso il Cortile del Castello.
Da dove viene…
Ride. "Dalla Malesia…Ma ho viaggiato molto, volevo scrivere la mia storia. Quella cinese è la più forte tra le comunità di immigrati. In un Paese dove le distinzioni di razza contano molto, la provenienza territoriale diventa molto importante. Si creano legami tra chi proviene dallo stesso territorio. Le identità sono essenziali per i nuovi migranti arrivati dalla Cina. Nascono famiglie adottive. Si creano i clan. Crescere così ti fa capire quanto sia importante conoscere queste diversità. Saperle riconoscere".
Oggi la Cina ha un problema di identità. Cosa significa per chi se ne è andato?
"Bisogna tornare alla storia per capire perché abbiamo un grande problema nel capire la Cina. Immaginate se si provasse a racchiudere l’Europa all’interno di una singola cultura. Questo genere di semplificazione è esattamente ciò che sta attuando il governo cinese. Creare una sola Cina è un sgarbo nei confronti della profondità della cultura da cui provengo. E’ un processo che purtroppo si sta intensificando. Tutto è iniziato nel 1949 quando i comunisti di Mao fondarono la Repubblica Popolare Cinese. Le diversità furono livellate. I miei nonni lasciarono la Cina prima che la rivoluzione annientasse la consapevolezza delle diversità culturali e regionali, dei numerosi dialetti. In Cina vi sono enormi differenze linguistiche: un pechinese e uno shanghaiese non parlano lo stesso dialetto, non mangiano lo stesso cibo. Pensiamo a quanto possa essere diverso un siciliano da un piemontese. Infatti in Italia un siciliano viene identificato in quanto tale. L’identità è una cosa importante e in Cina rischiamo di perderla. Gli immigrati cinesi nel Sud Est Asiatico provengono in maggioranza dal sud della Cina, soprattutto dal Guangdong e dal Fujian (province sudorientali). Parlano cantonese (dialetto del Guangdong), il dialetto del Fujian (hokkien) e il mandarino. Dei miei nonni uno veniva dal Fujian, era hokkien e parlava la lingua minnan, l’altro veniva dall’isola tropicale di Hainan nell’estremo sud cinese, vicino al Vietnam e a pochi giorni di navigazione dalla Malesia attraversando il Mare Cinese Meridionale. Quando ero piccolo mia mamma parlava il dialetto hokkien e mio padre quello di Hainan".
Che rapporto hanno gli immigrati cinesi in Asia con la Cina e con il proprio passato?
"Una relazione complicata. I miei nonni lasciarono la Cina prima del boom economico. Non immaginavano che il proprio Paese avrebbe presto intrapreso il cammino che lo avrebbe portato a diventare la seconda economia del mondo. Volevano sottrarsi da una schiacciante povertà. L’Oceano meridionale, Nanyang, era un’area di grandi promesse, con al centro i porti di Singapore e Malacca. Gli imperatori cinesi avevano costruito laggiù una rete di rotte commerciali e rapporti tributari. Gli immigrati hanno generalmente conservato una visione antica della Cina, mantenendo un forte legame con la storia e le tradizioni. Questo rapporto si nutre della nostalgia per un Paese che non esiste più. Quando nel 1920 si generò una enorme ondata migratoria, la Cina mutava profondamente e chi andava via restava ancorato all’idea di un tempo ormai perduto. Ma è un rapporto duro. Che non ammette sentimentalismi. Oggi in Asia siamo ricchi (anche se vi sono ancora sacche di povertà), non vogliamo parlare del passato. Esiste solo il futuro. Una volta dissi a mio padre che forse è proprio così che i cinesi che hanno vissuto la Rivoluzione Culturale fanno i conti con la loro storia: rimuovendo la memoria. Una questione di praticità. Mio padre mi gelò: “No, non è praticità. E’ vergogna”.
“Lo sforzo di adattare consuetudini asiatiche come la discrezione e il silenzio a un’esistenza da classe media contemporanea è ciò che fa di noi dei cittadini dell’Asia insieme tradizionali e perfettamente moderni”. Un processo doloroso.
"La mia generazione è cresciuta sognando quella Cina. Oggi i cinesi e gli asiatici arricchiti sono snob con i più poveri. I cinesi che hanno fatto i soldi hanno perso la cultura. Non hanno memoria delle radici. Paesi come Malesia e Thailanda sono affascinati dall’impetuosa crescita economica cinese. Pensano che fare affari in Cina sia facilissimo. Sta avvenendo anche un riallineamento linguistico quasi come un pegno di fedeltà: in Malesia abbiamo sempre usato il sistema di scrittura complesso, come ad Hong Kong, mentre negli ultimi cinque-dieci anni abbiamo iniziato ad adottare il cinese semplificato (la scrittura cinese fu semplificata a metà del secolo scorso per promuovere l’alfabetizzazione, il cinese tradizionale continua a essere usato a Hong Kong, Macao e Taiwan, ndr). È così più facile fare business. Ma comunque ci sentiamo diversi.
Quando va in Cina si sente straniero?
"Ho vissuto per la prima volta nella mia vita in Cina dal 2005 al 2009. A Shanghai, dove ho scritto il mio primo romanzo (The Harmony Silk Factory). Finalmente vivevo in un Paese dove somigliavo a tutti gli altri e nessuno mi scambiava per un thailandese, come mi accade spesso in Malesia. Ma anche in Cina è complicato spiegare da dove vengo. Un giorno salgo sul taxi e l’autista mi parla in cantonese. Quando mi sente parlare anche mandarino nota il mio accento malese e mi domanda: da dove vieni? Spiego: sono nato a Taiwan, i miei genitori sono malesiani di origine cinese, oggi vivo a Londra…“Suan le suan le (lascia stare)” mi interrompe il tassista. Poi aggiunge: “Sei comunque cinese”. Basta questa frase per dare un senso alla mia vita e restituirmi un senso di appartenenza. Anche se per due generazioni la mia famiglia non ha avuto contatti con la Cina realizzo di appartenere a questa cultura, ed è un sentimento confortante.La Cina è un oceano. Sentire di appartenere alla stessa cultura pur in mezzo a tante diversità è bellissimo".
Nel suo libro ha scritto che studiare l’ha portata a sviluppare un senso di colpa nei confronti della sua famiglia.
"La mia generazione è nata in una epoca di riscatto. Siamo nati in Asia in una fase di grande evoluzione. Uscivamo da condizioni di povertà estrema per trasformarci in economie emergenti. Noi siamo stati i primi a ricevere una educazione scolastica. E io ho avuto il privilegio di nascere in una famiglia che mi ha dato l’opportunità di studiare in ottime scuole. Non tutti hanno avuto la mia stessa fortuna, i miei genitori mi hanno dato un’opportunità d’oro a loro negata. Ma cosa vuole dire diventare colti? A un certo punto siamo diventati estranei. Cosa succede quando inizi a parlare una lingua diversa? Mio cugino non ha mai lasciato il suo villaggio. I suoi non hanno potuto farlo studiare. Lavora in fabbrica e quando ci incontriamo parliamo lingue diverse. L’istruzione ha scavato una profonda distanza tra di noi. Avevo sei anni quando capii che il mio destino mi avrebbe diviso da loro. L’ambizione che ti porta a essere curioso, a scoprire mille cose, a parlare tante lingue. A Londra ho conosciuto molti scrittori che provengono da famiglie di letterati. Io no, ma non sono diverso da mio cugino: anche lui è brillante ma è cresciuto senza libri. E così mi sento in colpa".
Cosa significa essere oggi un immigrato in Asia?
"L’immigrazione oggi è completamente diversa da quella dei miei nonni o dei miei genitori. Loro si spostavano alla ricerca di opportunità. Oggi il livello di depravazione con il quale si accompagnano i flussi migratori nel Sud Est Asiatico cancella ogni traccia dei passati sogni di riscatto. Zero dignità. Ai tempi dei nonni emigrare in un altro Paese poteva cambiarti la vita. Pensiamo agli italiani sbarcati in America. O ai cinesi in viaggio verso Singapore o la Malesia. I paesi di approdo erano luoghi dove costruivi il tuo futuro. Dove creavi la tua famiglia, mettevi radici. Oggi invece i migranti lavoravo a contratto. Devono dare il 30% dello stipendio al loro agente. Dopo tre anni sono costretti ad andarsene. Il Paese ti caccia via. Oggi l’immigrazione è sfruttamento. A farne le spese sono soprattutto donne e giovani. Vengono dal Bagladesh o dal Myanmar, tra i Paesi più poveri al mondo, sono in gran parte musulmani. I flussi si mescolano spesso ai trafficanti d’organi. Migliaia di persone che finiscono perseguitate. Le organizzazioni per i diritti umani non hanno sufficienti risorse per garantire loro sicurezza. Vengono lasciati in una sorta di limbo, trattati come schiavi, senza protezione. Un destino crudele che potrebbe essere evitato semplicemente riconoscendo la provenienza di ciascuno di loro. Invece vogliamo solo i loro corpi. Non capisco perché ci siamo ridotti a sfruttare così altri esseri umani, a farli lavorare senza dare loro la possibilità di costruirsi un futuro. Abbiamo costruito i nostri Paesi sull’immigrazione; Singapore è stata costruita sugli ottant’anni di immigrazione cinese seguiti all’insediamento britannico e sull’utilizzo delle risorse naturali da parte del governo coloniale. Senza il lavoro degli immigrati non esisteremmo. E oggi li trattiamo così. Anche il clima che si respira in Gran Bretagna mi spaventa. Sono confuso. Provo una rabbia profonda. Questo è il punto centrale del mio libro. Perché noi immigrati vogliamo essere tali e quali agli altri. “Vogliamo che lo straniero sia uno di noi, qualcuno che possiamo capire”.
Come vede la Cina di oggi?
"I cinesi hanno sofferto la fame. Essere ricchi e godere di libertà economica è un diritto conquistato a fatica. Per molti cinesi i diritti umani sono case, macchine, lavoro. Cibo: l’ossessione per il mangiare. Il Partito Comunista Cinese è molto abile nell’adattarsi e nell’anticipare le esigenze della società civile. Non so se questo patto possa durare a lungo. Quando sono tornato per un breve periodo nel 2015, ho notato che qualcosa era profondamente cambiato. Prima i miei amici erano euforici di andare a cena fuori ogni sera e fare shopping. Oggi quella gioia sfrenata è svanita. Non so cosa questo significhi".