C urzio Malaparte, uno dei più discussi e geniali intellettuali del Novecento, moriva per una malattia incurabile ai polmoni il 19 luglio di sessant’anni fa alla clinica Sanatrix di Roma. Aveva solo 59 anni e nell’ultimo periodo di vita, con l’ennesima delle mosse a sorpresa che spiazzavano e spiazzano chi avvicina la sua figura, aderì devotamente al comunismo, senza rinunciare nella fase estrema – ma nessuno può attestarlo con certezza – a una conversione al cattolicesimo.
Il suo nome, che ha alternato momenti di popolarità e di oblio dal 1957 a oggi, ha ridestato l’attenzione poche settimane fa, quando una petizione vanamente lo propose per un Premio Strega alla memoria. La sua città, Prato, dove Malaparte (alias di Kurt Erich Suckert) nacque il 9 giugno 1898, lo ricorda con una due giorni di manifestazioni promosse dal Comune. E la casa editrice Adelphi ha intrapreso la ripubblicazione delle opere.
Malaparte dedicò alla Cina le sue ultime pagine. Furono raccolte in un volume uscito postumo senza che avesse la possibilità di rivedere il testo, lasciato in parte sotto forma di abbozzo. Fu durante il viaggio in Cina che si manifestò la malattia dello scrittore, il quale ricevette lì le prime cure, come racconta nell’ultimo capitolo del libro qui di seguito quasi interamente riportato. Risalì sull’aereo con un amore smisurato e del tutto acritico per la Cina, e la sua nuova fede comunista fu tale: fede più che ideologia, tanto che nel capitolo finale del libro assolve la tremenda repressione sovietica della rivoluzione ungherese del ’56. Non vide (non volle vederla o non gli fecero vedere) la realtà del regime maoista, che viveva l’effimera stagione dei Cento Fiori mentre si preparava la repressione “antidestrista” dell’estate ’57, che preluse al drammatico periodo del Grande Balzo in avanti. “L’ultimo viaggio, fu la fine del gioco: il saluto alla Cina – scrisse Giancarlo Vigorelli – fu un saluto alla vita, anche se pagato con la morte”.
Alla Repubblica Popolare lasciò in eredità – ma una causa giudiziaria lo impedì – la sua celebre ‘Casa come me’ di Capri.
“Malaparte, incontrato a Capri dallo scrittore americano Frederic Prokosch, gli inventò i nomi di antichi romani immaginari, gli spiegò come i Faraglioni di giorno si muovano… E Prokosch riportò diligentemente le cose, non so se più credulo o se più divertito”, racconta all’AGI lo scrittore e critico Francesco Durante, che di Anacapri è nativo. “In rapporto a Capri mi piace ricordare Malaparte come uno degli ‘spiriti guida’ dell’isola. Scrissi più di trent’anni fa un pezzo provocatorio in cui chiedevo di abbattere la sua famosa villa, che vista sotto un profilo oggettivo è un abuso paesaggistico intollerabile. Mi scrissero tutti e di tutto, persino l’Ordine degli architetti, indignati per la mia provocazione che invece, sono convinto, sarebbe piaciuta pure a Malaparte: anche quella ‘Casa come me’ fa parte del suo marchio di fabbrica, perché la verità è che l’architetto Adalberto Libera fu totalmente esautorato dal progetto: Malaparte la villa se la fece da solo”.
“Purtroppo – prosegue Francesco Durante – la Fondazione Ronchi e gli eredi Malaparte tengono la villa chiusa. Non la può visitare nessuno, se non in maniera assolutamente arbitraria: è una gestione che non ha alcun senso, anche perché è un luogo consegnato alla storia dell’isola e alle sue leggende”. Qual è il giudizio di Durante su Malaparte? “Malaparte ha ampi tratti di spregevolezza, un ‘arcitaliano’ vero, un tutto e il contrario di tutto, un trasformista, uno scrittore terribilista… ricordo le reazioni dei napoletani quando andò nelle sale il film tratto dal suo romanzo ‘La pelle’. Ma se dobbiamo trovare un tratto di coerenza più o meno assoluto, nella sua opera e nella sua vita, forse lo registriamo solo in questa idea dell’Europa che è la ‘Mamma marcia’, un concetto su cui Malaparte insiste sempre con una certa coerenza e anzi avvalora quando segnala la vitalità e la gentilezza degli americani, la freschezza che il Mondo nuovo porta al Vecchio Continente nell’ultima guerra mondiale”. Alla fin fine Malaparte chi era? “Era un bell’uomo, che aveva molte donne, un tipo di italiano ricorrente: quello di d’Annunzio, di Marinetti, oggi di uno Sgarbi, con un dandismo sopra le righe e provocatorio, italiano, fescennino, cultore dell’invettiva… La verità è che nessuno di loro ha la leggerezza di un Oscar Wilde, mi paiono piuttosto tutte figure anche un po’ tragiche. E come loro ce ne sarebbero tante altre. E’ la strana via italiana al protagonismo dell’intellettuale”, conclude Durante.
da: Curzio Malaparte “Io, in Russia e in Cina”, Vallecchi Editore, Firenze 1958
Voglio bene ai cinesi
Sì, certo, sono ancora molto stanco. Il viaggio da Pekino a Roma è stato lungo, faticoso benché tutte le precauzioni fossero state prese per diminuirmi lo strapazzo del volo di 10 mila km, dalla Cina all’Italia. E forse la ragione di questa mia stanchezza non è tanto la fatica fisica quanto il dolore del distacco dai miei amici cinesi.
Lo sapevo anche prima di andare in Cina cosa significasse la parola fratello, ma il vero profondo eterno significato dell’espressione amore fraterno l’ho imparato soltanto durante il mio soggiorno e la mia malattia in Cina. E se insisto su questa mia esperienza di affetto, di gentilezza, di solidarietà umana, non è per spirito deamicisiano, ma perché è un fatto raro e meraviglioso che un popolo impegnato in una così dura lotta contro l’eredità di miseria e di sofferenza del passato, per la costruzione di un grande paese moderno, libero, giusto e umano, sappia volgere tanta parte del suo spirito alla bontà, alla generosità, alla fraternità.
La fame, la sofferenza, la schiavitù, l’ingiustizia fanno spesso duri e cattivi i popoli. Il popolo cinese, nonostante secoli e secoli di schiavitù, di fame, di umiliazione, di terrore, è rimasto buono. E la grande lezione che si impara in Cina, nella Cina Popolare di Mao Tse Tung, non è soltanto una lezione di coraggio, di sacrificio, di tenacia nella lotta e nel lavoro, ma anche e soprattutto una lezione di modestia, di bontà, di onestà. Durante il mio viaggio attraverso la Cina, dallo Shansì del nord all’estremità nord-occidentale del Turkestan, dal Kansu all’Hupei, avevo visto da vicino un popolo di contadini e di operai unito e compatto nella costruzione di una patria nuova, libera e giusta, di una Cina socialista.
Quel che avevo veduto a Ta-Tun, nello Shansì, a Urumci, nel Turkestan, a Langchow, nel Kansu, a Sian, nello Scensi, a Ciunking, nel Sechuan, era un esercito impegnato in una battaglia contro le miserie ereditate dal feudalesimo, contro tutta una storia millenaria di tirannia e di fame. Ma quel che ho visto nel corso della mia malattia, nei tre mesi e mezzo passati negli ospedali di Ciunking, di Hankow, di Pekino, è stato uno spettacolo ancora più straordinario e commovente: quello di un intero popolo impegnato in una colossale battaglia contro la tubercolosi, il rachitismo, l’anemia, la malaria, la denutrizione, cioè contro i cento e cento mali che secoli e secoli di feudalesimo hanno lasciato, spaventosa eredità, nel sangue del popolo cinese. […] Né si creda che i medici degli ospedali cinesi siano dei medici qualunque: essi sono in genere specialisti di grande fama, di uno standard non certo inferiore e molte volte superiore a quello dei migliori medici americani e tedeschi. Il reparto pediatrico dell’ospedale di Hankow è senza dubbio il più modernamente attrezzato fra quanti io abbia mai visto: e non accade in Cina, come purtroppo altrove, che i bambini che possono esservi ricoverati siano soltanto figli di ricchi. Sono bambini di operai, di contadini, di povera gente. […] La direttrice del reparto pediatrico, professoressa Tao, mi ha aggiunto: “I bambini hanno un’importanza decisiva nell’avvenire del mondo, più grande di quello che molti non credono”. Questa frase della professoressa Tao mi faceva tornare in mente quello che mi aveva detto un contadino cinese, in una cooperativa agricola dello Scensi: “La guerra non si farà perché i bambini non la vogliono”.
Quel che ho telegrafato al presidente Mao Tse Tung, nel lasciare la Cina, è vero: “Sono andato in Cina da amico, sono partito innamorato della Cina”. Io non potrò mai dimenticare quello che le autorità e il popolo cinese hanno fatto per me e questo sentimento di gratitudine e di affetto si aggiunge al mio sentimento di ammirazione, di solidarietà per la grande opera di costruzione socialista di quel popolo.
Come ho detto l’altro giorno in una intervista alla Pravda, chi ha vissuto da vicino l’esperienza cinese può meglio di ogni altro valutare serenamente e obiettivamente i dolorosi episodi avvenuti in Europa negli ultimi mesi. Sono avvenimenti tragici, penosi, che addolorano un animo giusto e onesto, ma che non possono tuttavia, in nessun modo, scalfire la fede nell’avvenire di un mondo di libertà, di giustizia e di benessere qual è il mondo di cui la Cina Popolare ci offre un’immagine ancora acerba ma sicura e definitiva.
Anch’io ho sofferto nel leggere sui giornali le notizie di Budapest, ma questa sofferenza non si è mai accompagnata al dubbio. La grande e positiva esperienza cinese assolve qualunque errore, perché è la prova manifesta e indiscutibile che la somma dei fatti positivi, nel moto del progresso, è superiore sempre alla somma degli errori. […]
Io voglio bene ai cinesi. E sarò sempre al loro fianco, in ogni caso, qualunque cosa possa succedere nel mondo. Voglio bene ai cinesi non solo per la ragione personale del bene che mi hanno fatto, ma per la ragione più valida e più vera del bene che fanno a tutti gli uomini e a tutti i popoli. L’altra mattina, all’aeroporto di Pekino, quando ho cominciato a salire la ripida scaletta del turboreattore sovietico, messo a mia disposizione dal governo cinese per ricondurmi in Italia, la piccola folla di autorità, di giornalisti, di medici, di infermieri, di funzionari dell’aeroporto, di scrittori, di diplomatici, che era venuta a salutarmi – c’era in quella folla il Ministro della Cultura della Repubblica Popolare cinese venuto a portarmi il saluto del governo e del Presidente Mao – è ammutolita all’improvviso. Io non riuscivo a salire quei ripidi gradini e mi ero accasciato mezzo svenuto. Il Comandante del turboreattore sovietico, un biondo russo dalle mani enormi, è sceso di corsa e mi ha sollevato quasi di peso, issandomi, gradino per gradino, verso la cabina dell’aereo. La folla, colpita dallo spettacolo penoso, taceva. Giunto in cima alla scaletta con il fiato rotto (da più di tre mesi respiro con un solo polmone), mi sono fermato per riprendere forza. Ed è allora che mi sono accorto del silenzio della folla. Volevo dire qualcosa per salutare i miei amici, per ringraziare, e mi sono venute spontanee alle labbra tre parole cinesi, che ho pronunciato lentamente, con grande fatica: “Uò ai zungkuojen”, che vuol dire: “Io voglio bene ai cinesi”. E la folla si è messa a piangere.