R oma - Questa non è una storia di quelle in cui si deve scoprire come va a finire. Mauro Garofalo in 'Alla fine di ogni cosa' (Frassinelli, 264 pagine, 18,50 euro) non racconta una di quelle storie che finiscono bene. Johann Trollman nasce ai primi del ‘900 in Bassa Sassonia, da una famiglia Sinti. E’ un ragazzo intelligente, brillante, e dotato di un fisico eccezionale per forza, possenza e agilità. Per questo gli danno il soprannome che lo accompagnerà per tutta la vita, “Rukeli”, che significa “albero”.
Non ha ancora vent’anni quando viene scoperto dai selezionatori di quello che era all’epoca lo sport più popolare del mondo, la boxe, e portato ad Amburgo, per allenarsi e combattere ai massimi livelli. E inizia una carriera strepitosa, fatta di vittorie su vittorie, conquiste sentimentali, vita mondana. Rukeli diventa una star, uno dei personaggi più celebri e amati di tutta la Germania. Ma non può durare.
La vittoria del nazismo, le leggi razziali, le persecuzioni, porranno fine prima alla carriera, e poi alla vita, di uno dei più grandi pugili di tutti i tempi. Verrà ostacolato in tutti i modi, poi privato del titolo, e poi perseguitato, sterilizzato, mandato a combattere al fronte, e alla fine chiuso in un campo di concentramento. E sempre inseguito dall’astio e dall’invidia di piccoli uomini meschini, felici di poter godere della disgrazia di chi è stato felice, fortunato, amato. E sarà l’ultimo degli invidiosi, un kapò che lo ha sfidato nel campo e che ne é stato sconfitto, a porre fine alla sua vita.
Ma questo libro non è una biografia, è un romanzo. Mauro Garofalo infatti non racconta la storia di Rukeli, ma, come sanno fare solo i grandi romanzieri, diventa Rukeli. Si fonde con il suo personaggio, ne assume lo sguardo e le emozioni, e ci porta con lui nel momento più terribile della storia dell’umanità, facendoci vivere una vicenda umana bellissima e tragica. (AGI)