AGI - Il 4 maggio Renato Vallanzasca ha compiuto 74 anni, di cui gli ultimi 52 quasi tutti trascorsi in carcere. "Siamo andati a fargli gli auguri. Era imbambolato, stordito dalla malattia e dai farmaci" racconta all'AGI chi l'ha incontrato nel carcere di Bollate dove sta scontando quattro ergastoli per rapine, omicidi e sequestri di persona. Gli amici non mancano al vecchio bandito che imperversava a Milano negli anni Settanta. Come Tino Stefanini, che faceva parte della sua gang e a ottobre finirà di scontare mezzo secolo di galera anche se è già in affidamento da qualche tempo.
"Renato sta male, malissimo. Ha pochi momenti di lucidità. Chi va a colloquio con lui mi racconta che la malattia degenerativa di cui soffre avanza. Cosa aspettano a farlo uscire? Di lui resta ormai solo il nome. I primi segni li ho visti quattro anni fa, si dimenticava di venire a mangiare". Dopo una vita sulla strada, i due hanno passato molti anni insieme anche in cella. "Facevamo l'aria insieme, gli voglio bene. Sto male a saperlo così". Le prossime settimane saranno decisive per il suo futuro dopo che nei mesi scorsi il Tribunale di Sorveglianza gli ha revocato i permessi per andare almeno una volta alla settimana in comunità terapeutica sostenendo che possa ricevere cure adeguate a Bollate.
"Il 19 giugno discuteremo il reclamo contro questa decisione - spiega all'AGI l'avvocato Paolo Muzzi che lo assiste col collega Corrado Limentani -. Vallanzasca non ha mai dato problemi in quel contesto, ha sempre usufruito dei permessi in modo corretto e puntuale. Poi presenteremo un'istanza per avere i domiciliari sulla base dei documenti medici in possesso dello stesso carcere che certificano la sua malattia. Intanto abbiamo chiesto la nomina di un amministratore di sostegno e siamo in attesa che il giudice tutelare ci indichi chi dovrà occuparsi di lui. Il mondo di Vallanzasca è finito 40 anni fa e dopo 52 anni in carcere possiamo dire che lo Stato ha vinto, non ha bisogno di negargli la possibilità di curarsi al meglio".
"Non è sufficiente che l'infermità fisica menomi, in maniera anche rilevante, la salute del condannato e sia suscettibile di generico miglioramento fuori dal carcere ma è necessario che l'infermità sia di tale gravità da far apparire l'espiazione della pena detentiva in contrasto col senso di umanità a cui si ispirano i dettami costituzionali e sovranazionali" ha scritto la Cassazione quando ha respinto nel novembre 2023 il ricorso della difesa di Vallanzasca contro la decisione della Sorveglianza di dargli i domiciliari.
I medici di Opera, dove era in precedenza recluso, avevano parlato di "lento decadimento cognitivo". "Vorremmo che venga svolta una perizia sulle sue condizioni che in passato ci è stata negata anche perché la situazione si sta aggravando sempre di più" dicono i difensori. Sempre la Cassazione ha fatto presente che sia innegabile l'esistenza di un "deterioramento cognitivo" ma, appunto, non lo ha valutato incompatibile con la dignità del detenuto. Chi lo ha visto lo descrive "chiuso nel suo mondo, vuoto" e ritiene che in carcere non possa ricevere gli stimoli adeguati per rallentare il buio che sta invadendo la sua mente.