AGI – Procura di Livorno e investigatori spaccati sull’interpretazione di presunti gravi abusi denunciati da detenuti nel carcere di Porto Azzurro all’isola d’Elba.
Da una parte c’è un’informativa di 130 pagine del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Livorno e del Nucleo Investigativo della polizia penitenziaria di Roma che, sulla base dei racconti “talora convergenti” di diversi reclusi, racconta di “violenze sfociate nella maggior parte dei casi in veri e propri atti di tortura” sui reclusi da parte di una “squadretta” di agenti. Dall’altra la valutazione dei pm Sabrina Carmazzi e Massimo Mannucci che chiedono l’archiviazione perché ritengono che “gli elementi acquisiti non appaiono consentire una ragionevole previsione di condanna” per gli indagati. Il 4 ottobre si sarebbe dovuta svolgere un’udienza davanti al gip per decidere se far calare il sipario oppure riaprire la vicenda, come chiedono l'avvocato di una delle presunte vittime degli abusi e il Garante Nazionale dei Detenuti. L’appuntamento in aula è stato però rinviato per un legittimo impedimento al 15 dicembre.
"Torture tollerate per tutelare l'immagine dell'isola"
L’AGI ha avuto accesso a entrambi i documenti, quello degli investigatori e quello della Procura che sembrano arrivare a conclusioni diverse. Tra i reati ipotizzati per gli agenti, a vario titolo, ci sono quelli di tortura, stato di incapacità procurato mediante violenza, omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale, depistaggio e per i reclusi danneggiamento causato da incendio e resistenza a pubblico ufficiale. Nell’informativa si ipotizza che la “politica perseguita a tutti costi dal direttore della casa di reclusione sarebbe stata quella di tollerare trattamenti penitenziari non conformi a umanità e dignità” per “tutelare l’immagine dell’isola” nelle attività del carcere anche allo scopo di ottenere fondi europei e ministeriali per un progetto a Pianosa, distaccamento del carcere di Porto Azzurro, finalizzato al reinserimento dei detenuti. “Le attività esperite nei riguardi degli indagati – scrive chi ha condotto gli accertamenti – hanno permesso di cristallizzare le direttrici investigative concorrenti alla vicenda delle torture”.
L’inchiesta comincia da una serie di esposti presentati nel 2019 dal detenuto B.F. che riferisce “di essere stato denudato, ammanettato e picchiato da alcuni agenti come forma di rappresaglia dopo che aveva fatto ricorso per denunciare altre angherie”. Questa pista investigativa “si è andata maggiormente delineando con l’attività istruttoria fatta da questo Comando” fino a “disvelare l’esistenza di altri detenuti che avevano subito violenze nel carcere di Porto Azzurro e che avevano potuto denunciare i fatti solamente all’indomani del loro trasferimento in altri istituti o rivolgendosi a organi di polizia esterni al carcere”. Non sempre, viene precisato, “il ricordo di alcuni collima con la denuncia dei diretti interessati”.
Le testimonianze su 'Padre Pio' e gli altri
Alcuni raccontano di una “squadretta” agli ordini dell’ispettore Pietro Duca che avrebbe pestato i reclusi nella “galleria”. “Mi ricordo che un marocchino – mette a verbale un testimone – fu portato fuori dalla cella e a dorso nudo fu strattonato e che noi vedevamo dalle nostre celle che lui andava verso la galleria e mentre usciva dal reparto sentivamo dei sonori schiaffi. La galleria è il corridoio che trovi uscendo al reparto dove ci sono gli uffici, dove c’è l’ufficio dell’ispettore capo Pietro Duca”. Ci sono anche altre persone sentite che riportano episodi analoghi. “L’ispettore è entrato in cella e lo ha picchiato, l’ha buttato contro un muro”. “’Padre Pio’, così veniva chiamato per via della barbetta e che faceva parte della squadra, ha partecipato a un’aggressione in cui un suo collega ha ricevuto un calcio da un marocchino. Lui e tanti altri sono andati sopra a prendersi questi detenuti tant’è vero che poi c’erano i muri sporchi di sangue, hanno dovuto chiamare il lavorante a pulire”. “Sono stato denudato, picchiato da una ventina di agenti e buttato a terra come uno straccio ammanettato”. “Una volta dopo essermi ubriacato in cella mi sono svegliato l’indomani in una cella liscia nudo a terra con accanto il mio vomito, con un occhio gonfio e il labbro spaccato”.
Le intercettazioni sul presunto "insabbiamento"
Agli atti c’è una conversazione tra Duca e il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, in cui parlano delle indagini sulla situazione a Porto Azzurro. Duca afferma: “Evidentemente… le denunce che hanno presentato i detenuti nel corso degli anni; addirittura un appuntato donna dei carabinieri ha detto: ‘Questi di Porto Azzurro la devono smettere’!”.
C’è un’ambientale che dimostrerebbe l’”insabbiamento”, secondo chi ha scritto l’informativa. “La commissaria Perrini informa D’Anselmo di avere appreso dall’ispettore Lo Noce che effettivamente avrebbero percosso C. in una circostanza in cui era ubriaco. Rivelazione che si sposa perfettamente col contenuto delle dichiarazioni di Z. e che evidenzia l’ennesima azione di insabbiamento laddove D’Anselmo, pur deprecando il ricorso a questi metodi (‘Io sono contrario, è contro la mia coscienza”), lascia tuttavia agli agenti la facoltà di difendersi quando forniranno la loro versione ‘la loro parola contro quella lì’”. Nell’informativa si parla dell’“estrema chiarezza con cui la Commissaria Perrini espone al direttore D’Anselmo le informazioni ricevute direttamente dall’ispettore Lo Noce circa le violenze inferte ‘con soddisfazione’ ai detenuti. Perrini: “Su cosa stanno indagando...D’Anselmo: “Sulla squadretta…”. Perrini: “Gliele hanno date…”. D’Anselmo: “Ah, veramente?”. Perrini: “Gli ho detto: ma gliele avete date almeno? Ma avete dato una lisciata?”. Ha risposto: “Sì, e ci siamo tolti la soddisfazione”.
L’altra parte dell’indagine riguarda la situazione “fuori controllo” a Pianosa. Dopo una richiesta di chiarimenti sull’”anarchia” che regnerebbe a Pianosa e le perquisizioni che confermano l’ipotesi, “la reazione di D’Anselmo è a dir poco funambolesca per quel tentativo sempre ricorrente di coprire le proprie omissioni”. Il 22 gennaio 2021 “D’Anselmo invia al magistrato di sorveglianza la relazione sull’episodio di violenza patito da un detenuto ma per tutelare Duca non la invia in Procura” e, come risulta da un’intercettazione, “semmai gliela chiedessero la farebbe sparire”. Al direttore e al Comandante sono “addebitati anni di omissioni e violazioni” e una gestione della cosa pubblica “in base alle loro necessità” come l’indicazione impartita da D’Anselmo a un sostituto commissario “di far risultare che tutti i viaggi con la motovedetta navale risultassero per fini istituzionali”.
Perché per la Procura non si può parlare di torture
Nella richiesta di archiviazione, i pm premettono che per valutare i fatti “non si può prescindere dal tenere in debito conto quel peculiare contesto ambientale in cui si alternano coazione e desiderio di libertà in cui i detenuti si trovano in ambivalenti condizioni sia di soggezione che di rivalsa psicologica nei confronti di chi si occupa della loro custodia”. Dalle intercettazioni emerge “una propensione verso metodi risoluti nei confronti dei detenuti che venivano messi in riga in caso di comportamenti scorretti nonché l’esistenza di un numero ristretto di agenti che avrebbero agito con la forza”.
Secondo i pm “il ricordo di alcuni testimoni non sempre collima con le denunce perché in alcuni casi i detenuti non hanno confermato di essere vittime di violenza e in altri hanno fornito una versione diversa e in altri casi ancora le violenze non sono state confermate dai detenuti presenti”.
Il loro punto di vista è che non c’è il reato di tortura “perché si tratta di episodi tendenzialmente isolati che non risultano trascesi in comportamenti inumani e degradanti per la dignità dei detenuti (gli episodi di denudamento sono spiegati con la prassi della necessità di evitare autolesionismi) che potrebbero integrare reati perseguibili a querela spesso posti in essere a seguito di intemperanze, provocazioni o altre condotte illecite degli stessi detenuti, molti dei quali risultano indagati”. Sulla mancata trasmissione della relazione dell’educatrice da parte di D’Anselmo “probabilmente ha considerato il denunciante un mitomane, come da lui stesso dichiarato nelle intercettazioni”.