AGI - Saqib Ayub, il fidanzato di Saman, racconta al processo per l'omicidio della ragazza "i nove giorni vissuti insieme a Roma" quando decisero di sposarsi. Tra le figure chiave nella storia della diciottenne, uccisa dopo essersi ribellata a un matrimonio forzato voluto dalla sua famiglia, il ventitreenne si è costituito parte civile.
Affiancato dall'interprete, il connazionale di Saman spiega di averla conosciuta su Tik Tok nel gennaio del 2021 e di averla vista a Bologna una prima volta e poi "altre quattro volte tra Bologna e Roma, solo una prima volta con l'autorizzazione e poi no perchè la comunità non le dava il permesso di uscire". Nell'aprile del 2021, prosegue Ayub, "Saman venne a Roma". "Le dissi io di venire perchè lavoravo lì. Trascorremmo insieme nove giorni durante i quali decidemmo di sposarci. Prima ne parlavamo solo, a Roma prendemmo la decisione. Io comprai il mio abito da sposo e chiesi a mia madre di far arrivare dal Pakistan quello per lei".
Rispondendo alle domande dell'avvocato Mariagrazia Petrelli, che difende uno dei cugini imputati, Ayub ha affermato di avere mandato dei messaggi al telefono di Saman in cui le chiedeva dove fosse, durante i giorni passati insieme a Roma, per mostrare alla comunità che la stava cercando che la fidanzata non era con lei. "Volevamo sposarci in fretta perchè se no sarebbe tornata in comunità e sarebbe stato difficile farlo ma lei doveva recuperare il passaporto, un documento necessario per le nozze. Decidemmo insieme che lei doveva tornare a casa per recuperarlo". Al ragazzo, Saman avrebbe detto "che lei voleva lavorare e studiare ma i genitori non le davano il permesso e che negli otto mesi trascorsi in comunità non avevano fatto nulla per lei".
"Mi diede un elenco di numeri se le fosse successo qualcosa"
Nell'aula del processo, Ayub risponde mostrando sicurezza alle domande degli avvocati e più volte ripete che la sua fidanzata "era triste e aveva paura", anche nei giorni che trascorsero insieme a Roma "in cui eravamo stati bene". Era così angosciata che a un certo punto "quando lei era in comunità mi diede un elenco di numeri di persone da chiamare se le fosse successo qualcosa".
Il ragazzo precisa che Saman aveva il terrore sia che il padre Shabbar potesse metterla in pericolo ma era anche preoccupata per le minacce ricevute da lui e dai suoi genitori in Pakistan. Nel corso della deposizione, la presidente della Corte d'Assise di Reggio Emilia, Cristina Beretti, ha invitato il giovane a parlare in italiano viste le difficoltà di traduzione dal pakistano da parte dell'interprete che lo affianca. E Saqib non ha mostrato titubanze. "Saman mi disse che suo padre era stato il mandante di un omicidio i cui esecutori erano stati due suoi parenti e un africano che poi erano finiti in galera" dice, tra le altre cose, una circostanza già emersa in precedenza sulla quale poi non erano stati trovati riscontri.
Anche dopo il ritorno da Roma, "Saman mi disse che aveva paura e che, se non l'avessi sentita due o tre giorni, avrei dovuto chiamare i carabinieri. Cosa che poi feci il 4 maggio del 2021". "L'ultima volta che l'ho sentita era preoccupata - aggiunge -. Mi disse che sua madre girava per la stanza". Racconta anche che una volte ricevette "una chiamata di minacce dal profilo Instagram della madre Nazia da parte di un uomo che, secondo Saman, era suo zio Danish".
Il padre Shabbar non parla
Shabbar Abbas non si è sottoposto a esame nè ha reso dichiarazioni spontanee nell'udienza del processo in cui è imputato davanti alla Corte d'Assise di Reggio Emilia assieme alla moglie e a tre familiari per concorso in omicidio della figlia Saman.
Nel calendario stilato dalla Corte, nell'udienza di oggi l'imputato, detenuto a Modena dopo essere stato estradato dal Pakistan, avrebbe avuto la possibilità di illustrare la sua versione. Uno dei suoi legali, l'avvocato Enrico Della Capanna, ha spiegato però all'AGI che la difesa ha deciso "di aspettare l'audizione del fratello di Saman", considerato il principale teste dell'accusa, per avere un quadro completo e poi parlare.