AGI - A vederla oggi, popolata dalla sua quotidiana umanità in perpetuo movimento e da greggi di turisti che vagano col naso per aria soverchiati dalla grande bellezza, punteggiata di negozi e bottegucce tutti con la saracinesca alzata, perennemente apparecchiata dei dehors di bar e trattorie, ammantata da un rombo ininterrotto di voci e di motori, si stenta a ricordare la Roma del lockdown.
Si stenta quasi a credere che sia mai esistita. Ma ci sono le fotografie che testimoniano i lunghi mesi di quel doloroso intervallo, di quello straniamento pandemico, delle piazze deserte, delle strade spettrali, delle giornate silenziose più delle notti. La Roma chiusa nella paura del Covid, percorsa da controllori del coprifuoco assai più numerosi dei temerari inosservanti, spinti fuori di casa da un lavoro non vaporizzabile in formato virtuale, o da una ribelle insofferenza alle costrizioni.
Forse non ne erano consapevoli allora, quando si usciva sempre un po’ col cuore in gola, ma a pensarci adesso verrebbe da invidiare il privilegio irripetibile che è toccato loro: attraversare quella Roma onirica, insieme risplendente e buia, distesa lungo il Tevere in un febbricitante dormiveglia, con lo sfavillio barocco delle chiese sprecato in struggente solitudine, la magnificenza dei palazzi sbigottita in quella stasi sinistramente tombale, le penombra dei vicoli fattasi più inquietante che invitante, i monumenti guardati mille volte ma irriconoscibili su un proscenio di sanpietrini neri e immoti.
Piazza Navona mai prima così immensa, con le sue fontane così lontane l’una dall’alta nel risuonare dei passi, il Pantheon che si esibisce per una platea distratta di piccioni, Fontana di Trevi lavata dallo scroscio dell’acqua e presidiata dai gabbiani, piazza di Spagna inanimata, con la Barcaccia arenata ai piedi delle scalinate in un naufragio senza testimoni, piazza del Popolo senza popolo, gelida dissonanza tra la toponomastica e la contingenza sanitaria, e l’Eur con i suoi marmi metafisici dove la propria ombra proietta il passante avventuroso dentro un dipinto di De Chirico.
Era bellissimo. Era tristissimo. Roma sembrava un set cinematografico dopo la fine delle riprese, quando attrezzisti e comparse se sono ormai andati, o uno di quei borghi abbandonati sparsi in angoli remoti d’Italia e del mondo, dove i visitatori vanno a provare il brivido del vuoto e in qualche minuto se ne saziano. Era affascinante, ma anche asfissiante.
Ci si poteva sentire come il protagonista di ‘Dissipatio H.G.’, il romanzo di Guido Morselli in cui l’intero genere umano è sparito e il mondo è a totale disposizione dell’unico rimasto, che scopre di non sapere cosa farsene. Era in un qualche modo un sollievo, pur se esasperante, quando un vigile urbano o un poliziotto ti fermava per chiederti cosa ci facevi in giro: finalmente una persona! Si esibivano i documenti e le autorizzazioni, e poi si continuava in quel Sahara monumentale, mezzo rapiti e mezzo avviliti. Per fortuna è finita.