AGI - Forse la colpa è di Ferenc Molnar e dei suoi ‘Ragazzi della Via Pàl’. O magari di Harry Gray e della sua banda di teppistelli ebrei celebrata poi sullo schermo da Sergio Leone in ‘C’era una volta in America’. O dei ‘Guerrieri della notte’ di Walter Hill e i ‘Ragazzi della 56esima strada’ di Coppola. O dei vari ‘Gomorra’, ‘Romanzo Criminale’, ‘Suburra’ e tutte quelle celebrazioni letterario-cinematografiche che hanno al centro gang più o meno giovanili.
Le analisi sociologiche sull’origine della bande di bambini e adolescenti si sprecano e se si sforzano di venire a capo di un fenomeno che si fa sempre più allarmante, offrono ben poche soluzioni. Del resto la differenza tra la fenomenologia letteraria e quella reale è ben descritta nel rapporto di Transcrime che descrive le gang giovanili come agglomerati di ragazzi “annoiati, privi di stimoli o incapaci di relazionarsi con i propri pari”.
Ma chi parla di degenerazione recente, non fa i conti con fenomeni le cui origini vanno ricercate nella notte dei tempi, molto più indietro dei vari teddy boys, mods, skinheads, punk, rasta e via dicendo. Fino alla Roma imperiale (ne parla lo stesso Cicerone) e ancora più indietro: del resto che cosa erano i Proci se non una gang di rampolli annoiati impegnati a molestare una onesta donna di casa?
Quando nasce il fenomeno in Italia
Eppure, per convenzione, le gang giovanili vengono considerate un fenomeno della seconda metà del XX secolo (con buona pace di quel variegato e violento mondo mirabilmente descritto da Herbert Asbury in ‘Gangs of New York’ che affonda le radici nella prima metà dell’800) e, per quanto riguarda l’Italia, prende spinta negli anni ’70, quando il confine tra banda criminale e terrorismo era diventato molto labile.
Una situazione fotografata molto bene dall’inchiesta del 1975 ‘In cerca del Padre‘ che classificava l’universo giovanile in tre gruppi: il tipo bene, il fighetto e il tipo impegnato ognuno dei quali era riconoscibile dall’abbigliamento, dai luoghi di ritrovo e dal linguaggio. Tre anni dopo un’altra inchiesta cristallizza ulterioremente lo scenario creando la definzione di ‘Generazione del Boh!’.
Fenomeni nati a Milano, Bologna, Roma e Torino intorno a riviste come “Re Nudo”, “Ombre Rosse” e “l’Erba Voglio” e nei ritrovi al parco Lambro o il quartiere Ticinese che avevano dato vita alla controcultura giovanile della fine degli anni ’70 lasciando il passo a mode, gruppi e realtà giovanili con caratteristiche molto diverse e per certi versi incomprensibili.
I cambiamenti sociali ed economici che segnano il passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta danno il via a quell’era di ‘edonismo reaganiano’ che si lascia alle spalle la demonizzazione dei consumi per esaltarli e configurarli come uno dei momenti privilegiati dell’esistenza. Un fenomeno che una ricerca commissionata dal Comune di Milano tenta di analizzare nel 1984, salvo trovarsi a fare i conti con la controffensiva punk e skin che, in uno degli ultimi colpi di coda del movimento, ccupò il Teatro di Porta Romana in segno di protesta contro ogni forma di classificazione.
Quella stessa classificazione che cui invece aspiravano quelle “bande spettacolari” – come vennero definite in una relazione della Questura e Prefettura di Milano – che si sarebbero poi evolute nei “paninari”. Sempre abbronzati, vestiti con dissimulata eleganza, avevano un codice di abbigliamento rigido e inconfondibile: giubbino Moncler, camicia a scacchi, cintura El Charro, jeans Levis 501, calzini Burlington e scarpe Timberland.
Indicati dall’ultrasinistra milanese come elementi di destra, sconfessati dal Fronte della Gioventù, i paninari erano in realtà in netta antitesi con le formazioni politiche sia a destra sia a sinistra, facevano di uno stile di vita di accettazione di tutto ciò che rappresentava il nuovo nei consumi la loro principale caratteristica. Per questo motivo la nascita di questa identità può essere fatta risalire da un lato alla crisi dell’attivismo politico e sociale degli anni Settanta, dall’altro a una nuova ripresa dei consumi definibili in stile “americanizzante” di cui il più rappresentativo era certamente il fast food.
Ma gli anni ’80 non sono solo l’epoca dei paninari. Ci sono i ‘Metallari’, riconoscibili per il ‘chiodo’ - giubbotti di pelle nera ornati di borchie metalliche – i jeans chiari e gli anfibi. A Milano si ritrovano nella zona delle colonne di San Lorenzo. Appassionati dell’hard-rock, salutano l’esibizione dei complessi musicali favoriti con le dita della mano a P.38 con un gesto che qui è privo di qualsiasi significato politico.
Poi ci sono gli ‘Skinhead’ che indossano jeans, calzano anfibi, portano capelli rasati a zero e si ritrovano al limitare dei quartieri di Quarto Oggiaro e Comasina. I Rockabilly indossano giubbotti e jeans e portano capelli alla Elvis Presley. Si ritrovano nella zona di via Torino e piazza Sant’Alessandro. Amano il rock-soft, tradizionale, degli Stati del Sud e adottano come simbolo la bandiera confederata.
I Rockers indossano jeans, stivali e il Kepi dell’esercito nordista o cappelli da cow-boy. Girano su ‘chopper’ (non necessariamente Harley: non tutti possono permettersele).
I Mods indossano vestiti anni ’60 (giacca e cravatta), inforcano occhiali neri e si ritrovano nella discoteca “Odissea 2001” e nella Galleria al Duomo. Quello che resta del punk - pantaloni e giubbotti neri, anfibi e capelli a cresta, colorati – si ritrova nel “centro Virus” di via Correggio: uno stabile occupato già ritrovo di anarchici.
Ma per capire da dove vengono le gang di oggi bisogna forse studiare i Crips e i Blood di Los Angeles: gruppi legati soprattutto a un’etnia, vero frutto del disagio delle periferie e completamente slegati da ogni ideologia.