AGI - “Certo, tutto quello che si ripropone senza grande sforzo intellettuale viene a noia. Perché poi non è che l’innovazione di per sé sia godevole e persistente. Può essere godevole ma istantanea, perciò effimera, non durevole”, dice in questa conversazione con l’Agi il professor Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, scrittore e divulgatore
In un capitolo del suo ultimo libro “Lezioni di sogni” (Mondadori, € 19,50) nel capitolo “Le conseguenzew della noia”, Crepet sostiene una tesi da approfondire: “Una componente del mondo giovanile, costretta all’isolamento e con l’unico strumento che le abbiamo consegnato - la tecnologia digitale - sta dicendo, per ora soltanto in forma embrionale, che il mondo iper-connesso ed emotivamente anoressico li sta annoiando e inizia a reagire in modo significativamente diverso”, tant’è che il professore annota: “Se fossi a capo di un’azienda che produce social network sarei preoccupato per le conseguenze che potrebbe avere se si diffondesse con sempre maggiore convinzione”.
Professor Crepet, cosa sta succedendo? Vuole dire che è l’inizio di una crisi dei social?
"Su Facebook si sono già addensate nubi che hanno costretto la dirigenza a cambiare. Adesso stanno entrando nuovi social che sono contro-social. Ce n’è uno che sta spopolando, Clubhouse, il contro-Instagram, che è una sorta di ritratto e autoritratto delle persone con sui ci si trovo in quel momento. Sembra un po’ complicato, ma i ragazzi lo fanno facilmente. Non so bene a cosa serva, ma sta di fatto che è contro la staticità, la ripetizione, la bellezza che Instagram propone. Quella di fare la foto tirata, la foto bella e seduttiva”.
Tutto questo produce noia?
"Anche. Ma dico che tutti i movimenti artistici hanno goduto di un lungo periodo di gestazione e sviluppo, nonostante fossero di grandissima rottura con l’immediato passato.
A cosa pensa, in particolare?
"Penso ai Surrealisti, agli Impressionisti. Correnti che sono state delle innovazioni, hanno spaccato il classicismo sia dal punto di vista tecnico sia concettuale che del mercato. Però dei Surrealisti andiamo ancora a vedere le mostre, ma non so se tra cent’anni ci sarà qualcuno che andrà a guardare Facebook. Ce lo vendono come un bene del momento, non destinato a durare. Istantaneo, è questo che genera noia. La noia si determina quando si ripetono gesti, parole, atti che hanno solo una fruibilità immediata. E l’errore tipico della prima rivoluzione industriale: ripetere sino alla nausea i gesti. È la catena di montaggio che ha dato vita ai sindacati creando gli anticorpi. È la chiave inglese di Charlie Chaplin in ‘Tempi moderni’ che ha fatto sindacato. La ripetitività delle azioni, e il capitalismo è stato costretto a correre ai ripari, inventandosi altre modalità".
Vuole dire che il nostro affanno quotidiano è vincere la noia?
"Certo, ma per una parte dell’umanità. L’umanità non è una categoria sindacale, siamo tutti diversi e abbiamo sensibilità differenti. Dire quel che stiamo dicendo vale per una cospicua minoranza degli acquirenti della rete digitale, chiamiamoli con il loro none. Oggi ci saranno milioni di persone, non necessariamente tutti giovani, che andranno al mare o in montagna e fotograferanno il risotto allo zafferano e lo posteranno. Questi qui non si stanno annoiando".
Allora, chi s’annoia?
"Il vero valore rivoluzionario della noia è di chi se ne accorge e ne ha coscienza".
Però lei predica che annoiarsi è giusto. Consiglia ai genitori di far annoiare i figli e di non soccorrerli con continue sollecitazioni distraenti… Annoiarsi fa bene, lei dice.
"Certo, ci siamo passati tutti in gioventù. Facevamo cose che poi si riproducevano in maniera estenuante e alcuni di noi hanno cominciato a dire ‘basta con la discoteca!’ piuttosto che ‘basta andare al mare a Jesolo’. È lì che è nata l‘idea di andare in Croazia, del viaggio alternativo per spezzare la routine. Si facevano 350 chilometri in più ma si trovava un mare diverso, più bello, altra gente da incontrare. Non ci fosse stata la noia di Jesolo, da lì non ci si sarebbe mai mossi. Qualcuno invece c’è riuscito. Dico Jesolo per dire qualsiasi posto che viene alla nausea, rutiniero… Il problema risiede nella riproducibilità di un’emozione".
Noia come fonte di salvezza, riscatto?
"Certamente. Quando l’emozione è riproducibile in quanto tale, non diversamente, lì scatta la noia. Lì ci si salva. La salvezza è un prodotto della noia".
Lei dice che se fosse il capo di un’azienda che produce social network si preoccuperebbe per le conseguenze della noia, perché?
"Sono anni ormai che si sfrutta questo strumento dei social, abbastanza simile per dinamica e ripetitività. È la stessa evoluzione dei telefonini poi diventati smartphone. All’inizio c’era un telefono portatile, poi sono arrivati i messaggi, le foto, la connettività, la navigazione, Whatsapp, un’evoluzione che è stata sfruttamento intensivo di pochi centimetri quadri di uno strumento. La novità però non era l’hardware ma il software. Certo, c’era anche un Nokia che si apriva a libretto, ma ha avuto vita breve. Ci sono state aziende che hanno avuto una grandissima popolarità e poi sono morte. Penso al BlackBerry, usato da Obama. Esiste anche la morte del digitale, non è che qualsiasi cosa si faccia in digitale duri in eterno… Muore l’hardware, quel tipo di telefonino, sopravvive il software che cambia e s’inventa un altro involucro ma alla fine sempre sull’egocentrismo punta".
In sintesi, lei dice che la tecnologia e matura, siamo a un punto limite?
"Sì, di maturazione e di esaurimento".
E sta per subentrare la noia. Ma la noia è anche creativa in quanto dirompente. Rivoluzionaria.
"Certo! Infatti, secondo me, ci saranno nel prossimo futuro delle sottopopolazioni, è sempre così, delle avanguardie, sempre così è andata, che s’inventeranno delle vite con pochissimo utilizzo del digitale. È come il fenomeno Polaroid. Negli anni ’50 Polaroid fece il miracolo di far vedere subito la fotografia appena scattata. Solo tre minuti d’attesa e la foto era pronta. Da Wharol a lo stesso Toscani, tantissimi fotografi l’hanno usata perché era la tecnologia del momento che faceva fare cose che altre macchine non consentivano. La Polaroid è morta. Dal punto di vista del consumo, del suo commercio".
Beh, adesso ci sono i telefonini…, tutto più facile e comodo…
"Ma non è morta a causa dei telefonini, è morta ben prima. È morta per noia. Esiste un concetto nella tecnologia, soprattutto, che si chiama disruptive innovation, innovazione dirompente, che distrugge. È lo stesso fenomeno di quando s’è passati dalla penna alla macchina per scrivere, così come il computer ha distrutto la vecchia macchina per scrivere. Ora la disruptive innovation finché trova un campo nuovo, che permette di annullare il passato, vive perché si rinnova. Dal Commodor di quarant’anni fa al primo Apple archiviando ciò che v’era stato prima. Valentina dell’Olivetti è andata a finire al Moma di New York, oggetto da museo".
Ma la disruptive innovation vale per qualsiasi cosa, non riguarda solo la tecnologia, quindi cosa vuole sostenere?
"Certo, perché ci si stufa. Ci si stufa di tutto. Solo i vecchi cronisti continuavano a battere sulla Lettera 22 dell’Olivetti. Montanelli. Non potevano adattarsi alla nuova tecnologia che si veniva imponendo, alla nuova era, la consideravano blasfema. Oggi però sono tutti sullo schermo e a nessuno verrebbe in mente di tirare fuori una vecchia Lettera 22. Insomma, in tutto questo di working progress ad un certo punto fa si che va via il progress e rimane il working… Ed è un momento di rottura: in quel momento l’umano cerca qualcosa di diverso".
Si potrebbe dire, finita Nokia resta la noia…
"Sì, perché stiamo tutti a fare le stesse cose, per ora. Probabilmente l’innovazione sarà distraptive in maniera molto più radicale di quella che è stata nel secolo scorso, nel Novecento. Non sarà più cambiare la Lettera 22 con l’Ibm elettrica e piccolo display su cui scorreva la frase. Noi oggi siamo alla fine corsa, al terminal del tram".
Facendo una cosa nuova. La noia spacca il mito e la sua ritualità.
"Vincere la noia per fare una cosa nuova è una rincorsa all’innovazione, la sua escalation. Non crea ansia?
Certo, e per ora siamo tutti ai blocchi di partenza".
Cosa intende?
"Non vedo ancora l’avanguarde, così potente. Le avanguardie del Novecento non sono state partorite in una settimana. Jackson Pollock era tanto che buttava il colore sulla tela… Si deve riuscire a convincere del proprio atto estremista, come tagliare una tela. C’era anche chi la bruciava come Burri, pero ce n’è voluto".
La noia si vince anche con i sogni?
"Certamente. Il sogno, per esempio, di vivere liberi. Questo sarà uno dei grandi temi per l’umanità nei prossimi anni. Quanto più si restringe la libertà, perché si sta restringendo con tutta evidenza: i Big Numbers, i Big Data, tutti i controlli, quello facciale, delle impronte, fino a qualunque regime che può entrare nella vita di ciascuno e sapere di ognuno cosa ha fatto, dove è andato, cosa ha mangiato, chi ha frequentato. Utile a incrementare i regimi, come quello militare cinese che controlla tutto, e il regime americano che controlla le donne se hanno abortito".
Sarà il tema del suo prossimo libro?
"Potrebbe, vedremo. Anche se mi deve dare atto che io “Baciami senza rete”, che fotografa l’oggi, l’avevo scritto già cinque o sei anni fa. Però credo molto in tutta questa grande confusione, perché secondo me, non certo in Cina o in Alabama, ma da noi ci saranno giovani che diranno ‘basta’ con questa asfissiante codificazione della vita".