AGI - Sono diversi i passaggi nella relazione finale della Commissione d’Inchiesta sul Covid letta dall’AGI in cui i vertici della Regione Lombardia sottolineano lacune da parte del governo nella gestione della pandemia. Il governo Conte II.
"Dpcm ogni giorno, impossibile intervenire"
“Il tracciamento nei primi mesi di pandemia, in particolare fino al mese di maggio, è stato di fatto vietato dal governo su tutto il territorio nazionale; è per questo che esso non è stato eseguito in regione. Inoltre, si aggiunge, il tracciamento per le caratteristiche di esplosiva potenza diffusiva del Covid sarebbe stato comunque impossibile da attuare oltre al fatto che nessuno, inizialmente, aveva fornito ai laboratori della Regione ai reagenti per i test”.
Questa è la sintesi riportata nel documento dell’audizione del Presidente Attilio Fontana che ‘scarica’ su Roma anche la responsabilità di non avere allargato la ‘zona rossa’ a Bergamo e provincia.
“Alla domanda circa l’omessa immediata richiesta al Governo di attuare misure di contenimento e sui motivi per cui non sia stato prodotto un documento ufficiale che certificasse la richiesta di Regione al Governo, Fontana risponde che non esiste nemmeno un documento formale con la richiesta di chiudere Codogno e i primi Comuni in cui si estese il contagio; questo perché, si dice, ci fu fin dal primo momento un contatto costante, continuo con il Governo e con il Ministro della Salute per chiedere di valutare l’opportunità di chiudere le zone in cui si stava diffondendo il virus. Si aggiunge che, anche volendo, nei primi giorni dell’emergenza Regione Lombardia non avrebbe potuto agire in questo senso: questo è emerso in modo chiaro ed inconfutabile, si prosegue, dalla lettura del primo decreto-legge emanato in quel momento. Esso, infatti, prevedeva che i presidenti di Regione potessero emanare misure soltanto nelle more dei Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dpcm. Peccato però, si osserva, che nelle prime settimane queste more non ci furono, dal momento che i Dpcm venivano emanati praticamente ogni giorno”.
Fontana riferisce anche che “a fronte dell’appena citato decreto-legge e considerata la disciplina che esso introduceva, domenica 23 febbraio 2020 Regione Lombardia inviò una mail al dottor Borrelli – allora capo della Protezione Civile – e al Ministero della Salute, chiedendo che il decreto-legge fosse modificato in modo tale da consentire a Regione Lombardia di procedere autonomamente alla determinazione delle zone rosse e gialle in base all’andamento epidemiologico. Questa richiesta non fu recepita, di fatto, non essendo stato fatto poi seguito ad essa”.
Le diverse versioni sull'ospedale di Alzano Lombardo
Altro capitolo centrale di quei mesi la chiusura e poi riapertura del pronto soccorso di Alzano: “Si è venuti a conoscenza solo dopo due giorni che era già avvenuto”, assicura Fontana. E su tamponi e dispositivi di protezione, questa la sua versione: “Si conferma l’esistenza, al momento della deflagrazione dell’emergenza sanitaria, di un protocollo, approvato dal Ministero della Salute, che vietava assolutamente di sottoporre a tampone anche coloro i quali presentassero sintomi riconducibili, in teoria, al Covid-19. Le forniture nazionali di DPI a Regione Lombardia sono state eseguite molto tempo dopo l’inizio dell’emergenza sanitaria; non si hanno a disposizione, in questa sede, i dati per poter indicare il momento preciso in cui esse sono state consegnate”.
Su questo punto, Gallera sostiene che “all’ospedale di Alzano – così come in molti altri presidi ospedalieri della Regione – i primi giorni tutto il personale è stato sottoposto a tampone, con obbligo di attendere in ospedale l’esito del test”.
Ma l’allora direttore generale dell’ospedale, Giuseppe Marzulli, nella sua audizione, ha lamentato che “il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo avesse una insufficiente disponibilità di tamponi (solo 14) perché Regione Lombardia aveva collocato la SSP Bergamo Est (comprendente l’ospedale di Alzano) tra le ultime in ordine di priorità nella ricezione dei tamponi”.
"La zona rossa solo due settimane dopo quanto pattuito col governo"
Sulla zona rossa, Gallera marca la distanza temporale tra richiesta della Regione e accoglimento del Governo. “Sempre il 3 marzo, a seguito di richiesta di incontro, il Ministro della Salute, Roberto Speranza, ha raggiunto la sede di Regione Lombardia, incontrando di persona l’assessore ed il suo staff. È stata posta anche a lui, in questa sede, la richiesta di attivare la “zona rossa” nei territori regionali maggiormente investiti dal Coronavirus; egli ha risposto dicendo che avrebbe immediatamente riferito questa richiesta al Presidente del Consiglio dei Ministri e che, nelle successive 48 ore, entro il 5 marzo, nelle zone interessate sarebbero stati inviati i militari. In quei momenti, si sottolinea, non è stata presa nemmeno in considerazione l’ipotesi di una azione solitaria e disgiunta da quella delle autorità nazionali. Successivamente, però, il 7 marzo, l’attivazione della 'zona rossa è stata sospesa dal Governo; a essa si è proceduto, sempre in concerto col Ministro della Salute, soltanto il 21 marzo, due settimane dopo rispetto a quanto pattuito inizialmente”.
"Non esisteva in protocollo pandemico plausibile"
Tra le numerosi audizioni dei direttore delle aziende sanitarie territoriali, c’è quella di Massimo Lombardo, alla guida di quella di Lodi, il quale afferma che “subito dopo” avere saputo del paziente positivo a Codogno “si è dovuto prendere atto dell’inesistenza di un protocollo pandemico plausibile che ragionasse di una epidemia in Italia”.
Marco Trivelli, direttore generale della Asst ‘Spedali Civili’ di Brescia, mette in fila una crolologia da cui si deduce che nel suo territorio ci fosse un primo caso di sospetta positività in contemporanea a Codogno. “Il primo caso a Brescia - ha raccontato - è stato registrato domenica 23 febbraio, a seguito di esecuzione di tampone. Per avere la certezza che fosse positivo o negativo si mandava allo Spallanzani e ci volevano due o tre giorni per esito”.
Nella relazione finale dei consiglieri di maggioranza, si critica in modo severo il Cts: "Ciò che è gravissimo è che il Cts abbia elaborato un piano di risposta al Covid senza informare le Regioni e abbia ooccultato le proiezioni drammatiche del professor Merler del 12 febbraio. Se l'intento era non diffondere il panico nella popolazione, alemeno i vertici regionali avrebbero dovuto essere informati"-
Per i familiari delle vittime "dichiarazioni inverosimili"
Duro il commento dei familiari delle vittime in causa contro Stato e Regione davanti al Tribunale Civile di Roma raccolti nell’associazione ‘Sereni- Sempre Uniti’. “Quanto accaduto in Lombardia nella prima ondata pandemica si è rivelata uno show dell’inutile. Da una parte abbiamo chi si auto-elogia e dall’altra chi condanna. Nel mezzo decine di documenti omessi e nessuna relazione capace di contenere preziose lezioni apprese da mettere a disposizione del management amministrativo e sanitario che dovrà affrontare la prossima pandemia. Nelle relazioni depositate dai vari partiti emergono dati e dichiarazioni tanto clamorose quanto inverosimili e su cui evidentemente nessuna forza politica vuole fare leva a riprova che la Commissione d’inchiesta sul Covid in Regione Lombardia debba considerarsi un banale incidente di percorso probabilmente prodromico all’omertà manifesta del Parlamento. Non a caso, l’audizione dei legali dei familiari delle vittime dello scorso luglio è stata artatamente ed opportunisticamente interrotta dalla maggioranza proprio nel momento in cui si metteva il dito nella piaga della mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca e della chiusura definitiva dell’ospedale di Alzano. Le stesse relazioni dei legali dei familiari che hanno depositato presso il Tribunale Civile di Roma oltre 2000 pagine di documenti non vengono nemmeno riportate nelle relazioni di minoranza”.