AGI – C’è chi non se ne va. Chi non cerca un volo nelle ore in cui l’aeroporto di Kabul bolle dell’impazienza e della disperazione di chi vuole salire su un aereo verso un ovunque.
“Chi è attivista vero, chi lo è non solo nel senso umanitario ma anche politico, non se va” spiega all’AGI Simona Cataldi del Cisda, il coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane. “Tanti, troppi scappano ma noi restiamo qui anche se ci sentiamo abbandonate. E’ giusto che si pensi ai corridoi umanitari ma devono aiutare anche noi. Che ne sarà altrimenti del nostro Paese?” è uno dei messaggi ricevuti da Cataldi firmato da una delle donne registrate sul suo telefono con un nome fasullo, perché quel messaggio potrebbe finire nelle mani dei talebani.
Il momento di agire dietro le quinte
Le donne del Rawa, le più dure, quelle del movimento femminista attivo dal 1977, hanno scritto in un comunicato del 19 agosto, il giorno dell’anniversario dell’indipendenza dagli inglesi. “Noi crediamo che solo un governo democratico e laico possa garantire al popolo afgano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Questo è il nostro obiettivo. Per raggiungerlo, l’unico modo è educare il nostro popolo alla libertà, quella vera. Di espressione, di pensiero, di auto-determinazione. Oggi, ovviamente, torniamo ad agire dietro le quinte. Lo facevamo già nei campi di rifugiati in Pakistan, non è una cosa nuova per noi. Oggi, cerchiamo di dare una mano agli sfollati che arrivano a Kabul, è una situazione di emergenza. Continuiamo e continueremo a insegnare a leggere e a scrivere a bambini e bambine, alle loro mamme. Aiutiamo a creare una coscienza politica afgana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono”. Ragionano al presente, come se la loro opera fosse solo più nascosta e pericolosa ma ancora fervida.
Non c'è solo il fronte umanitario
“I fronti su cui muoversi adesso sono due – riflette Cataldi -. C’è quello umanitario che impone di mettere in sicurezza e aiutare chi fugge ma anche quello politico e democratico che riguarda chi resta per difendere i diritti umani gravemente a rischio e si fa carico degli sfollati interni perché non tutti riusciranno a partire. La Banca Centrale Afghana è bloccata, il Fondo Monetario Internazionale ha sospeso i prestiti. Bisogna sbloccare il denaro per sostenere chi non se ne va, dargli appoggio politico da fuori, fare rete con queste realtà, inviare delegazioni internazionali di monitoraggio”.
Chi ha scelto di restare si trova in una doppia morsa: da un lato i talebani, dall’altro i ‘signori della guerra’, persone che hanno continuato a governare il Paese anche negli anni delle missioni, autori di crimini contro l’umanità - prosegue Cataldi -. Le nostre donne ci ripetono di rivedere lo stesso scenario che portò alla guerra civile negli anni Novanta, una guerra tra bande criminali”.
Le domande di chi resta
“Abbiamo visto sparire ed essere uccise giornaliste, giudici donne, soldati, medici e infermiere, fino a pochi giorni prima del 15 agosto – è la voce di Rawa - I talebani hanno provato a eliminare i loro oppositori e le oppositrici politiche prima di arrivare al potere. C’è chi ha ricevuto minacce di morte. Se a Kabul, per ora, le donne non escono in strada per paura, nelle provincie hanno già cominciato a sperimentare sulla propria pelle questi nuovi talebani: non un centimetro di pelle scoperto, uscire solo accompagnate da un uomo, stare zitte, obbedire, sparire. Quelli che possono scappano. Scappa il presidente Ghani, scappano i collaboratori degli occidentali".
Le domande che consegnano a chi scappa e a chi resta sono: "A cosa è servito occupare la nostra terra? A cosa è servito mettere in piedi un governo fantoccio, che ha consegnato il capitale in poche ore? A cosa sono serviti i miliardi di dollari spesi e le migliaia di vite perse in questa guerra? A riportare al potere gli stessi terroristi, molto più forti meglio armati e riconosciuti ora ‘legittimi’?”.