AGI – Si è alzato dal letto. Ha fatto qualche passo. Si è seduto in poltrona. Ha letto il giornale. Tutto normale, tutto banale. È quasi impossibile, a questo punto, non immaginarsi Papa Francesco con le pantofole, con le babbucce ai piedi al posto dei soliti scarponi neri che sanno di marciapiede e di periferia.
Un vecchio zio, alle prese con gli acciacchi dell’età. E i bollettini medici, distillati con cura dalla sala stampa vaticana, che hanno il sapore delle notizie – tra lo scarno ed il tecnico, che per capirle ci vuole la Garzantina di medicina – carpite rubando un decimo di secondo ad un camice che corre di fretta in un corridoio di medicina generale.
Perché questo è Papa Francesco. O meglio, il suo corpo, il corpo di un Papa, La cosa, una volta, più sacra che si voleva abitasse sulla Terra.
Ora non più.
Il sempre citato Kantorowicz sosteneva che il Re avesse due corpi, non uno. Il primo quello fisico, carne e umori, in comune con i suoi sudditi; il secondo misticamente incarnato nella sua funzione di regnante, che era anche funzione salvifica. Se peccava, era il re che peccava. Se governava era il Re che lo faceva.
Con l’arrivo dei re e imperatori borghesi dell’Ottocento, a cominciare dai Napoleonidi, questo va via via scemando; nella Chiesa invece il Pontefice ha mantenuto per ancora molto tempo qualcosa di questa realtà miafisita. Due nature nella stessa fisicità, separate, ma inseparabili. Come l’acqua unita all’olio in un bicchiere.
Come un Capetingio
Il processo di desacralizzazione del corpo del Papa ha preso tempo, ed inizia probabilmente con una serie di fotografie. Quasi fino ad allora il pontefice ormai morto veniva sottoposto ad un trattamento degno di un faraone egiziano, o piuttosto di un Capetingio: i precordi rimossi e chiusi in un vaso custodito in una chiesa di fronte alla Fontana di Trevi, l’imbalsamazione del cadavere per la processione funebre.
Ma quando Pio XII era lì lì per morire una serie di scatti al limite del sacrilego vennero venduti a un rotocalco. E allora si vide quel che si sapeva: Sora Morte Corporale prende un Vicario di Cristo esattamente come l’ultimo dei fedeli.
Lo si sapeva già, vero, ma un conto è sapere un conto è vedere. Ne abbiamo contezza dai tempi del Didimo. Potenza dell’evidenza: il corpo del Papa era il corpo di un papa.
Anche per questo Wojtyla fece della sua malattia, delle sue malattie e degenze al Gemelli, un momento di testimonianza. Il corpo non era più elemento del metafisico, ma parola scritta altrove rispetto ad un foglio di carta o pronunciata altrimenti rispetto all’uso della voce. In altre parole: non poteva più parlare, preso dal Parkinson com’era, e allora diceva con il corpo: “Vedete, questa è la fede”.
Splendida e autentica testimonianza, ma gli uomini sono sempre pronti a capire il contrario di quel che loro viene detto. Sicché quel testimoniare concreto divenne mediatico e superficiale sentire delle masse, e quel corpo che doveva essere l’ultima avventura di un povero cristiano fu trasformato dal senso comune in oggetto quasi totemico. E la cosa divenne evidente quando qualcuno ebbe l’idea, rimasta senza seguito, di prenderne il cuore e portarlo via da Roma, nella sua amata Cracovia.
Una cosa del genere era stata fatta per il Capetingio che morì a Tunisi di colera, prima vittima della crociata da egli stesso voluta.
Probabilmente è proprio questo ciò che Bergoglio intende evitare. Per lui il corpo è semplicemente il corpo: da accettare con i suoi acciacchi e con la testimonianza della fede che scaturisce dal prendere la sofferenza come viene. Semplicemente, francescanamente. Umanamente.
Con un paio di pantofole, mentre in poltrona si riprende a leggere il giornale. E magari si legge il risultato di una partita di calcio. Perché l’Italia ha eliminato la Spagna ai rigori, ma anche l’Argentina ha eliminato la Colombia. Ai rigori pure quella.