AGI - Che fossero uomini di Dio è cosa chiara a tutti: tali e quali ad un altro gruppo di cistercensi che, esattamente due secoli dopo, avrebbero fatto la loro stessa fine in circostanze non dissimili. Uccisi, questi ultimi, da un gruppo di estremisti islamici che avevano fatto irruzione nel loro monastero sui monti dell’Atlante marocchino, vero centro di tolleranza e convivenza tra esseri umani e religioni.
Quelli che Papa Francesco ha scelto di ricordare, invece, vivevano a Casamari, in mezzo alle paludi pontine. Questa la loro storia, in poche parole, così come Bergoglio in persona l’ha rievocata: “Nel 1799, quando soldati francesi in ritirata da Napoli saccheggiarono chiese e monasteri, questi miti discepoli di Cristo resistettero con coraggio eroico, fino alla morte, per difendere l’Eucaristia dalla profanazione”.
Erano in sei. Da ieri i martiri di Casamari sono beati. I sette cistercensi di Tibhirine lo sono già dal 2018. Ognuno ha la sua storia, ognuno i suoi tempi.
Quello che interessa, però, non è tanto l’aver ricordato il Pontefice, attraverso la loro esaltazione, l’idea di una Chiesa che soffre per la propria testimonianza: qui e ora, sempre e ovunque. È semmai quello che ha detto dopo averne ricordato la beatificazione, vale a dire questo: “Il loro esempio ci spinga a un maggiore impegno di fedeltà a Dio, capace anche di trasformare la società e di renderla più giusta e fraterna”. Giustizia e fraternità: concetti molto cari alla cultura laica; soprattutto il secondo, che a sua volta il Pontefice ha fatto proprio – essendo costretto per l’occasione a ricordarne l’origine Francescana – in occasione della sua ultima enciclica.
Ora, se si accosta a questo fatto l’essere avvenuta quella strage nel 1799, la cosa acquista un’altra luce perché quei soldati – Francesco lo ha ricordato – erano in ritirata da una Napoli che per qualche mese aveva vissuto l’esperienza di una repubblica giacobina creata sull’onda della campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte.
Una memoria mai condivisa
Alla sconfitta di quell’esperienza avevano concorso tanto i cannoni di Orazio Nelson quanto le armate sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria. Fu la fine di un progetto basato sul trinomio “libertà, uguaglianza e fraternità” caro alla rivoluzione d’oltralpe. E alla vera fraternità il Pontefice s’è richiamato, a sottolineare che sulla punta delle baionette non si porta mai niente di buono.
Così facendo, comunque, Bergoglio è entrato in un dibattito mai del tutto esaurito nella cultura italiana, che non ha ancora trovato una memoria condivisa nemmeno su quei fatti occorsi 220 anni fa. In fondo non deve sorprendere: dietro a quello che viene presentato talvolta, con una certa mancanza di flessibilità, come lo scontro tra le forze riformatrici e progressiste da una parte e quelle reazionarie e clericali dall’altra si cela in realtà una delle grandi questioni su cui si basa la nascita dell’Italia unitaria. Il rapporto dei cattolici, vale a dire, con la modernità.
A guardar bene la questione è rimasta aperta a cominciare dal giorno in cui si chiuse la storia della Repubblica Partenopea.
Da sempre citata dai cattolici conservatori come esempio di repressione anticristiana da parte di un laicismo letteralmente giacobino (nel senso di intollerante e dalla ghigliottina facile), la Repubblica Napoletana è stata considerata dai laici italiani come l’occasione, mancata, per legare la Penisola al carro delle nuove idee, al pari delle grandi potenze europee.
Ancora all’inizio degli anni ’90 – del Novecento – la questione dette vita di un vero e proprio Historikerstreit aperto dalla pubblicazione di un saggio di Vittorio Emanuele Giuntella. Storico, cattolico non certo di destra, specialista del Settecento italiano.
Scrisse in uno studio proprio sulla Repubblica del ‘99, Giuntella (ma riprendeva il concetto caro a Jean Guitton, secondo il quale “Libertà Uguaglianza e Fraternità” sono le declinazioni laiche della Carità cristiana), scrisse Giuntella insomma che “il vero significato storico del cattolicesimo democratico nel triennio giacobino sta nel confronto drammatico del cristianesimo e dei suoi valori perenni con la rivoluzione, i suoi pensieri e le sue istituzioni”. In altre parole: se in quel momento nasce il cattolicesimo democratico, questo avviene perché fu allora che la fortissima cultura cattolica si confrontò con gli ideali rivoluzionari che hanno generato molto della contemporanea laicità, facendone propri gli stimoli e le positività ma senza peraltro trovarvi niente di superiore a se stessa.
Replicò sull’altro fronte Italo Mereu, storico del diritto e esponente della cultura laica, che “il sintagma ‘cattolicesimo democratico’ non significa adesione ai principi della Rivoluzione francese, ma un modo diverso di opporvisi”. Più subdolo, magari.
Da allora la faccenda è rimasta congelata, finché oggi il Papa non l’ha affrontata nuovamente, anche se non direttamente.
A Casamari come a Tibhirime
Il suo richiamo alla Fraternità, pertanto, ha un valore più profondo di una semplice assonanza concettuale tra la sua enciclica e un evento storico perso nel tempo. È un richiamo al mondo moderno: sulla scorta di Guitton il Pontefice sfida il mondo contemporaneo a far proprie le radici profonde del cristianesimo, perché solo attraverso di esse un mondo che va vivendo la tragedia della pandemia potrà ritrovare se stesso.
Non è tanto o solo il cristianesimo, pare dire, a non aver saputo affrontare ai tempi della Repubblica Partenopea la sfida del mondo moderno, ma viceversa è quest’ultimo che deve far proprie le sfide del cristianesimo. Magari ammettendo che, anche alla sua nascita, nel 1799, vi furono gravi errori; magari ammettendo che il fanatismo di chi vuole profanare un’ostia e ammazza dei frati inermi è lo stesso: a Casamari come a Tibhirine.
Può farlo solo restando se stesso, inverandosi di libertà, eguaglianza e fraternità. Che sono le tre declinazioni laiche della Carità.