AGI - Per capire bene il complesso rapporto tra Kueng e Ratzinger (e come potrebbe essere se non complesso, il rapporto tra due sapienti come loro) qualcuno sostiene che si debba fare un viaggio a Tubinga, cittadina a poca distanza da Stoccarda dove entrambi si trovarono a insegnare teologia, nel medesimo periodo.
Periodo che poi erano gli anni ’60 che, come si sa, a contestazione dello status quo non hanno mai avuto pari. Tubinga, a dispetto della sua atmosfera serena degna di una città ideale, non solo non faceva eccezione, ma era in testa a quel marasma.
Dicono i maligni, a questo punto, che le lezioni cattolicamente correttissime di Ratzinger affascinassero molti studenti, ma quelle dell’eterodosso suo amico-rivale ne affascinassero ancor di più. C’è della logica, in tutto questo, perché anche senza notare la mascella carismatica di Kueng non ci si può stupire del fatto che dei ventenni, allora come oggi come in qualsiasi altra epoca, preferissero il richiamo all’essere folli ed affamati a quello ad essere saggi e composti. Sennò che giovinezza è.
Abbiamo detto “amico-rivale”, ed è la verità. I due si sono sempre stimati e, c’è da ritenerlo, si sono anche voluti bene. Ma andare d’accordo è altra cosa. Soprattutto tra sapienti, perché la conoscenza potrà pure unire gli esseri umani ma i professori li divide senza possibilità di redenzione. Nel caso specifico, poi, parlare di Kueng è parlare all’incontrario di colui che poi è diventato Benedetto XVI. Nessuno dei due, però, se ne è mai doluto.
Addio, chiesa trionfante
Prendiamo ad esempio proprio gli anni di Tubinga. Si è appena chiuso il Concilio Vaticano II. Nella Chiesa si sprigionano energie nucleari: se non le sai gestire rischiano di essere distruttive. Tanto che chi è chiamato a chiudere la sessione epocale, e si tratta di un altro pensatore del calibro di Jacques Maritain, poco dopo scrive un libro, “Il contadino della Garonna”, che ancor oggi viene considerato il sacro testo della reazione. Il che è sbagliato quanto un goal di Fashanu, ma a spiegarlo ci vorrebbe troppo.
Comunque erano tempi in cui il catechismo in Olanda lo riscrivevano a costo di rischiare lo scisma e un quarto teologo di razza, Hans Urs von Balthasar, commentava: “dalle Alpi in su sono tutti protestanti, anche i cattolici”.
Mica era un’opinione dal sen fuggita, ma una summa teologica di eventi storici. Per capire Kueng e la sua eterodossia bisogna infatti capire la Svizzera ed il suo complesso rapporto con la Chiesa, soprattutto con la Chiesa Trionfante. E tornare indietro nel tempo e nello spazio: Costanza, concilio del 1418. Tre papi ed una cattività avignonese da chiudere una volta per tutte. Si ammisero, oltre ai presbiteri, i laici.
Si chiuse la triarchia papale con l’elezione di un quarto (per la cronaca: Martino IV Colonna della casa di Genazzano) e gli si affidò l’incarico di tornare a Roma, ristabilire l’autorità non solo spirituale del Vicario di Cristo e ridare una guida spirituale all’Occidente. Puntualmente lui lo fece, anche se ci mise tre anni.
Quello che ci interessa, però, non è questo. È che a Costanza prese parte – attivamente – anche un teologo dissidente: si chiamava Pomponio Leto ed era un umanista. Teorizzava la superiorità del parere del Concilio su quello del Pontefice. In altre parole: il Papa non contava nulla se messosi contro i vescovi. Oggi diremmo: il Papa non è infallibile, ma allora non lo si diceva perché il dogma dell’infallibilità del Papa arriverà solo nel 1871, sotto Pio IX.
Kueng però nacque dopo il Vaticano I (nel 1928, per la precisione), quindi disse che il Papa non era infallibile. Gli fu tolto l’insegnamento a Tubinga, e che ringraziasse il cielo perché a Pomponio Leto era andata peggio: rinchiuso a Castel Sant’Angelo con la accusa di aver cospirato per uccidere il Pontefice, e quando implorava che gli si desse almeno qualcosa da leggere sennò impazziva gli facevano scivolare sotto il ferro della porta la trascrizione dei suoi discorsi di Costanza.
Si impose così l’idea di Kueng l’eretico. Ma non è così, perché se i suoi pareri sono stati spesso stridenti rispetto a quelli non diciamo di Ratzinger, ma di Montini per non dire di Wojtyla, questo è perché la Chiesa è in eterna ricerca della verità, e l’esplorazione conduce a mondi sconosciuti e strade inesplorate. Solo con il tempo, e con un adeguato lavoro di riflessione, si arriva poi ad un’idea condivisa.
Magari decenni dopo, ma un teologo è abituato ai tempi lunghi.
Il sottile fascino della rivoluzione
Ecco allora che Kueng non è classificabile se non come voce critica della Chiesa, con buona pace di Balthasar: non era protestante. Era diversamente cattolico. La teologia è la scienza dei sottili distinguo, e questa classificazione appartiene senz’altro alla categoria.
Ora che è morto è impossibile evitare di pensare a due cose. La prima è che con Ratzinger, in fondo, si riappacificò, ed andò a trovarlo anche in Vaticano. Non pace completa fu, ma di certo non fu rottura.
La seconda più che altro è una curiosità intellettuale: chissà come ha affrontato le ultime ore, perché nella sua riflessione degli ultimi anni lo Sterbenhilfe, l’aiuto a lasciare la vita, è stata centrale. Intendiamoci: niente eutanasia né suicidi assistiti. Piuttosto un atteggiamento simile a quello del Cardinal Martini. Ma sono misteri più grandi di noi: possiamo solo assistere in silenzioso rispetto.
No, c’è anche un terzo punto su cui riflettere. Ed è questo. A Tubinga nasceva una Chiesa che voleva essere di rottura, aperta al futuro, pronta a mettersi in discussione anche a costo di rischiare in prima persona. Una Chiesa giovane e di contestazione dello status quo.
Anni dopo ci fu uno studioso di Tubinga che disse basta: con la Chiesa paludata, trionfante, che nascondeva la polvere sotto il tappeto ed aveva bisogno di un bello scossone.
Fu così che un Papa, per la prima volta dal Concilio di Costanza se non dal Concilio di Pisa che lo aveva preceduto di poco, abbandonò l’incarico. Era Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI.
Se Kueng era un dissidente, lui è stato un rivoluzionario. Come spesso capita ai conservatori di rango.