AGI - “Ogni nembrese ha una storia da raccontare, la mia è quella di uno stordimento e di un blocco emotivo. Per un mese sono stato incapace di dire ai telespettatori che sono della bergamasca e che via Borgo Palazzo, tragicamente percorsa esattamente un anno fa dai camion militari con le bare a bordo, era la strada della mia adolescenza”.
Marco Carrara, 28 anni, nato ad Alzano e cresciuto a Nembro, gli epicentri bergamaschi della prima ondata del virus e da dieci anni trapiantato a Roma dove su Raitre è conduttore di ‘Timeline focus’ e anima storica del “moviolone” di Agorà, per la prima giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, accompagnata dal lutto nazionale e dal premier Draghi a Bergamo, ripercorre con Agi l’anno più complicato per la sua terra e le sue emozioni rimbalzate in tv.
“Prima del Covid la mia Nembro, la città proporzionalmente più colpita dal Covid nella prima ondata, con 188 vittime su 11.500 abitanti, era una realtà sconosciuta, il mio luogo rifugio di cui pochi italiani avevano mai sentito parlare - spiega - vederla a marzo protagonista dei collegamenti con i nostri inviati davanti ai miei luoghi familiari, nelle breaking news, nei servizi e poi raccontata anche sul New York Times mi ha provocato una sorta di shock”.
Uno stordimento emotivo che per un oltre un mese gli ha impedito di aggiungere il suo punto di vista da natìo nelle cronache tv e anche di riversarlo sui social: “Anche perché in tv stavamo raccontando un dolore collettivo e temevo che avrei potuto sottrarlo ad altri” spiega, aggiungendo che in merito all’indelebile serata delle bare dei bergamaschi caricate sui camion militari, scelta per la giornata in memoria delle vittime del Covid, “la valenza simbolica di quell’immagine non è stata subito così chiara”.
A metà aprile, continua, dopo aver ricevuto dai genitori la foto del loro albero centenario in fiore nel giardino di casa, “ho deciso di metterci del mio, in tv e nei social. Se dopo tante notizie tragiche la natura rispondeva, dovevo risvegliarmi anche io”. Detto fatto la pubblicazione di quella foto sui suoi social e la sua esternazione nembrese in tv ha dato vita, racconta a due diverse reazioni: “Da una parte c'erano gli italiani che avevano vissuto quel dolore e volevano condividerlo con me, dall’altra quelli che lo guardavano e volevano capirne di più”.
Non sono mancati però neanche i messaggi dei negazionisti che sui social hanno messo in dubbio la veridicità delle immagini dei camion militari: “Pochi per fortuna e credo che il compito di chi fa informazione sia anche quello di non dare risalto a queste fake news”.
Alla famiglia di Carrara, che in un anno, causa virus e difficoltà di spostamenti è stato a Nembro solo tre volte (la prima a fine febbraio 2020, nel weekend del paziente uno di Codogno, poi in estate e a Natale) dal punto di vista del contagio è andata bene: “Forse perché la nostra casa è nel verde, in una zona isolata - analizza - ma se ne sono andate purtroppo persone vicino a noi. In tv ho raccontato la scomparsa della giocattolaia da cui mi rifornivo da bambino, le storie dei tanti che si sentivano abbandonati e anche quella della madre di un mio caro amico, caricata su un aereo e portata a curarsi in Germania, quando le nostre terapie intensive erano piene”.
Quella mamma poi fortunatamente ce l’ha fatta “ma credo che il figlio non dimenticherà mai quegli appuntamenti telefonici quotidiani delle 18 con l’ospedale tedesco, con le informazioni fornite in inglese - chiarisce - anzi sono convinto che anche quando tutto questo sarà alle nostre spalle, sarà nostro dovere non dimenticare”.
Tornando quest'inverno nella sua Nembro, Carrara ha apprezzato che sui balconi ci fossero ancora gli striscioni con gli arcobaleno e le scritte “andrà tutto bene”, quasi un contraltare alla nuova declinazione dei luoghi storici della sua città: “L’oratorio di Nembro, dove giocavo da bambino, è diventato il centro di sedute di terapie psicologiche di gruppo, necessarie a chi è alle prese con l'elaborazione di una tragedia”.
Per lui, accanto all’immagine traumatica dei camion militari che trasportavano le bare dei bergamaschi, il momento emotivamente più forte, racconta, è stato quando Giuseppe Ippolito dell'ospedale Spallanzani, ospite l’anno scorso ad Agorà, intervistato dalla conduttrice di allora Serena Bortone aveva lodato “la grande dignità dei bergamaschi”. Carrara ricorda di essersi commosso: “E’ stata una sintesi perfetta dei miei concittadini, si dice che siamo come la polenta, ruvidi fuori e morbidi e calorosi dentro, credo sia proprio così”.
Ma è cambiata, osserva, anche la percezione del resto d'Italia: "Prima la domanda tormentone era "sei di Bergamo di sotto o di sopra?" , adesso la prima reazione alla provenienza territoriale è "Cavolo, mi dispiace per voi" . Una sensibilità che lo tocca profondamente: "Il 18 marzo non è però la giornata simbolo del dolore bergamasco, ma di quello dell'Italia intera".