AGI - Non rallenta la curva dei decessi per Covid in Italia, che vede anzi un leggero aumento nell'ultima settimana (499 morti al giorno in media contro i 471 dei sette giorni precedenti). Proprio oggi il nostro Paese ha superato quota 80mila vittime.
Una strage senza precedenti recenti per una singola malattia infettiva: l'influenza, tante volte citata a sproposito per un possibile paragone con il coronavirus, fa registrare nelle annate particolarmente nefaste 6-7.000 vittime. Mentre il Covid in Italia si è già preso 35mila vite nella prima ondata, e dopo la tregua estiva ha ricominciato a uccidere superando dopo 2 mesi il drammatico dato di febbraio-maggio, con oltre 45mila morti a oggi solo nella fase attuale.
Ma a impressionare è soprattutto il confronto con il resto del mondo, qualsiasi parametro si consideri. Il tasso di letalità, ad esempio, cioè quanti malati di Covid muoiono. Al primo posto in questa drammatica classifica è il Messico con l'8,72%. Seguono Iran (4,35%) e Perù (3,70%). Poi, prima assoluta nel mondo occidentale, proprio l'Italia con 3,47%. Per un confronto, gli Usa sono a 1,66%, il Brasile a 2,50%, persino la Gran Bretagna messa in ginocchio anche dalla variante inglese ha dati migliori, 2,62%.
Il dato dei decessi Covid per popolazione è ancora più inquietante, e probabilmente più attendibile. Nella classifica mondiale dei Paesi con più vittime, infatti, i dati assoluti vedono primeggiare gli Usa (quasi 390mila), seguiti da Brasile (204mila), India (151mila), Messico (135mila) e Gran Bretagna (83mila), seguita poco dietro proprio dall'Italia (oltre 80mila decessi a oggi), secondo i dati aggiornati di Worldometers.
Ma è chiaro che il dato assoluto non tiene conto del numero degli abitanti. Se si "aggiusta" il dato rispetto alla popolazione, l'Italia da sesta schizza al primo posto tra i Paesi citati, con una mortalità di 1,320 vittime per mille abitanti. Peggio degli Usa (1,173), del Brasile (0,960) e anche della Gran Bretagna (1,222). Per trovare Paesi con una mortalità peggiore della nostra bisogna risalire al caso San Marino, che con i suoi 65 morti ha una mortalità di 1,914 per mille (ma è evidente come con numeri così bassi il dato lasci il tempo che trova), o citare il Belgio (1,738 morti per mille), la Slovenia (1,477) e la Bosnia (1,337).
Insomma, nel giorno in cui il mondo fa registrare più morti di sempre (17.186) e in cui si raggiungono i 2 milioni di decessi totali (su oltre 90 milioni di casi) con una letalità globale del 2,91, l'Italia non riesce ad abbassare la sua media e a riportarsi quantomeno al livello già tragico degli altri Paesi occidentali.
Se i numeri parlano chiaro, quello che non dicono è il perché: come è possibile ad esempio che un Paese simile a noi per demografia, clima, persino fragilità strutturali e politiche come la Spagna abbia 30mila decessi meno dell'Italia, e una letalità piu' bassa? Durante la prima ondata la spiegazione che veniva data era soprattutto il fatto inoppugnabile che il nostro Paese era stato travolto per primo dallo tsunami, gli ospedali (e le Rsa) erano stati invasi dall'infezione prima ancora che ce ne accorgessimo e la tragedia italiana aveva consentito agli altri Paesi europei di prepararsi con almeno dieci giorni di anticipo.
E' chiaro che la stessa motivazione non può valere per la seconda ondata, dove anzi è stato il nostro Paese a essere travolto per ultimo. La questione "sociale", ossia il ruolo degli anziani anche come welfare supplementare (per esempio nel tenere i nipoti), ma anche l'abitudine alle interazioni, allo "stare insieme", ha sicuramente un peso rispetto ai paesi del Nord Europa, ma non in riferimento alle nazioni "cugine" del Mediterraneo, dove la letalità è inferiore, a volte come si vede anche di molto.
Mentre l'aspetto demografico, che ci vede come il Paese più anziano d'Europa, ha un ruolo, ma non può bastare a spiegare il gap con Paesi quasi altrettanto anziani del nostro. Semmai va sottolineato che se un italiano alla nascita può sperare di vivere più di 80 anni, l'aspettativa di vita in buona salute è pari a 58,5 anni. Si vive tanto, insomma, ma gli ultimi anni si vive male.
Quanto alle strutture ospedaliere, è vero che le terapie intensive, ad esempio, erano in grave carenza a febbraio, alla vigilia dello tsunami, dopo anni di tagli, per non parlare dei posti letto ordinari e anche del personale sanitario. Ma è difficile pensare che Paesi come Messico o India, al di là delle strutture d'eccellenza presenti per esempio nel gigante asiatico, potessero vantare in partenza un sistema sanitario pubblico migliore del nostro.
Una risposta, insomma, ancora non c'è, se non una, parziale, che può quantomeno spiegare l'abnorme tasso di letalià, ossia che ci sia un problema di sottostima dei casi reali. A marzo arrivammo al record di decessi, quasi mille, con 6.000 positivi e 20mila tamponi al giorno. Al picco di mortalità della seconda ondata, a novembre, siamo tornati a quasi mille morti giornalieri, ma con vette di 35mila-40mila casi quotidiani e 200mila tamponi.
Indice evidente che in prima ondata venivano "pescati" pochissimi casi rispetto a quelli reali: non a caso nella prima fase i decessi, che furono oltre 35mila, erano addirittura l'11% dei casi rilevati (che però realisticamente erano almeno dieci volte di più), mentre le 45mila vittime di questa seconda ondata sono meno del 2% del totale dei casi. Una questione di denominatore, in sostanza. Ma che non basta da sola a spiegare numeri così drammatici.