AGI - Da mesi siamo quotidianamente bombardati da bollettini, statistiche, opinioni e quant’altro sulla pandemia che ha colpito tutto il mondo e cambiato abitudini e modi di vita profondamente radicati. E anche nelle conversazioni con parenti, amici e conoscenti pronunciamo la parola covid un numero infinito di volte. Basta fare una semplice ricerca su Google per rendersi conto che si tratta di gran lunga della parola più cercata su web e dintorni. Eppure non ci siamo forse mai chiesti da dove nasca questa parola e, di conseguenza, non siamo consapevoli della confusione fra virus e malattia di cui sono protagonisti non solo gli organi di informazione ma anche le istituzioni e, in parte, anche la comunità scientifica. Confusione che ha finito per determinare una distorsione linguistica, attribuendo alla parola covid il genere maschile come e si trattasse del virus, mentre invece esso indica la malattia e per questo avrebbe dovuto prendere il genere femminile.
A provare a mettere un po’ d’ordine nella matassa linguistica creatasi, è l’Accademia della Crusca, che ricorda come COVID-19 sia il nome dato dall’Oms alla malattia l’11 febbraio 2020: si tratta dell’acronimo dell’inglese COronaVIrus Disease 19, ossia ‘malattia da coronavirus del 2019’. COVID-19, dunque, è la malattia, mentre il virus che la provoca si chiama SARS-CoV-2, acronimo dell’inglese Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2, da tradurre come ‘Coronavirus 2 della sindrome respiratoria acuta grave’, in cui il 2 è dovuto alla stretta parentela con il virus causa della SARS, appunto denominato SARS-CoV.
Secondo l’Accademia della Crusca, non ci sarebbero pertanto dubbi nell’attribuire alla malattia il genere femminile, quindi si dovrebbe dire la COVID-19, non il COVID-19. E però la lingua è qualcosa di vivo che a volte decide di infischiarsene delle regole grammaticale e di scegliersi la sua strada, magari per mere ragioni di musicalità o piuttosto per seguire la maggioranza delle persone o dei mezzi di comunicazione che quella parola utilizzano. E così, nel caso specifico, la sovrapposizione tra nome della malattia e nome del virus è all’origine anche del prevalente impiego al maschile di COVID-19: l’acronimo viene infatti erroneamente interpretato come il nome del virus responsabile della nuova patologia respiratoria, a cui è stato invece dato il nome di SARS-CoV-2. Tale fraintendimento è stato probabilmente determinato, oltre che dalla scarsa trasparenza dell’acronimo, di cui non sempre viene riconosciuto il referente 'disease' che ne è alla base, anche dallo scarso impiego nella stampa italiana del vero nome scientifico del virus (SARS-CoV-2), a cui più spesso ci si riferisce, in modo antonomastico, come “il coronavirus”. Con la diffusione del nuovo acronimo, coniato per dare un nome scientifico ufficiale alla malattia, la maggior parte ha insomma creduto che esso si riferisse al virus, anche a causa del frequente impiego improprio che in tal senso ne è stato fatto in rete e sui principali media italiani.
Alla diffusione di tale uso improprio, rivela l’Accademia della Crusca, hanno in verità contribuito non solo i giornali e gli altri mezzi di comunicazione, ma anche i testi dei decreti legge e di altri provvedimenti ufficiali emanati dal governo in merito all’emergenza sanitaria, che in molti casi i principali organi di informazione si sono limitati a citare. Lo stesso ministero della Salute, che aveva inizialmente optato per l’uso di COVID-19 al femminile, è poi ricorso pressoché costantemente al maschile nei comunicati stampa, nelle circolari e nella maggior parte dei contenuti pubblicati nel suo portale, così come costante impiego del maschile si è riscontrato nei decreti legge e nelle disposizioni attuative emanate dal governo.
A rendere ancora più confusa la situazione e meno chiara la distinzione tra la corretta denominazione del virus e quella della malattia, è poi intervenuto anche l’uso altrettanto improprio del sostantivo coronavirus a indicare per estensione non solo il virus SARS-CoV-2, ma anche la malattia respiratoria da esso provocata.
A un primo periodo di incertezza generale, in rete e sulla stampa, in merito al genere grammaticale da attribuire all’acronimo, che ha visto la frequente oscillazione tra maschile e femminile anche all’interno del medesimo articolo, è seguita la rapida affermazione dell’uso del maschile, che ha ormai quasi del tutto soppiantato il femminile.
Che fare a questo punto? La Crusca ha deciso di scegliere una posizione pragmatica. Vista l’amplissimo utilizzo del genere maschile, “risulta ormai poco plausibile una possibile inversione di tendenza a favore del femminile: il radicamento nella lingua corrente del maschile è infatti ormai tale che anche un’eventuale raccomandazione a favore del femminile da parte dei linguisti sortirebbe probabilmente scarso effetto”. Proseguono gli accademici della Crusca: “Se pure è vero che la maggior parte dei nomi italiani delle malattie sono femminili, non va dimenticato che esistono anche numerosi esempi di denominazioni maschili (il tifo, il morbillo, il vaiolo, il colera, oltre a il Parkinson).
L’uso di COVID al maschile “non può dunque considerarsi grammaticalmente scorretto”, sentenzia la Crusca, sebbene la sua origine sia per lo più da ricondurre a un uso improprio del termine nel significato di coronavirus responsabile della malattia respiratoria COVID-19.
Ma le controversie linguistiche non finiscono qui. L’Accademia della Crusca si sofferma anche sulla grafia dell’acronimo, che oscilla nell’uso tra la variante tutta maiuscola COVID-19, quella tutta minuscola covid-19 e quella con la sola iniziale maiuscola Covid-19. La più corretta sarebbe la prima, visto che è quella la grafia scelta dall’Oms. Pur tuttavia, nell’uso corrente, soprattutto sui giornali e all’interno di testi di carattere divulgativo, è attestata e ammessa anche la scrittura degli acronimi con la sola iniziale maiuscola, per cui anche la variante Covid-19 può considerarsi del tutto legittima e corretta.
Non è finita qui. Nel caso in cui l’acronimo si dovesse poi effettivamente stabilizzare in italiano come sostantivo comune, conclude la Crusca, la grafia più appropriata diventerebbe quella tutta minuscola, in quanto i nomi comuni di malattia non richiedono in italiano l’uso dell’iniziale maiuscola. Indipendentemente dalla variante grafica prescelta, anche in questo caso l’importante sarà però soprattutto mantenersi coerenti nel trattamento dell’acronimo, evitando di ricorrere alternativamente alle diverse varianti grafiche all’interno del medesimo testo.