AGI - John Lennon ha ottant’anni. Lo ha deciso la cabala dei numeri, la cabala della storia, ponendoci di fronte ad un esercizio impossibile: immaginare anziano il creatore di “Imagine” e di “All You Need is Love”, il più visionario dei Beatles, il pacifista impenitente che seppe tenere testa in una lotta impari all’Fbi (i “federali” lo credevano un pericoloso sovversivi, l’America di Nixon lo voleva cacciare dal Paese), l’utopista dagli occhialini tondi, quello che scatenò il finimondo dichiarando che i quattro di Liverpool “erano più popolari di Gesù Cristo” (finì, come si sa, con gigantesche montagne di dischi dei Beatles bruciati in piazza, e con la leggenda dei Fab Four ancora più solida e radicata).
Oggi il mondo torna ad inchinarsi al genio dell’uomo che una sera del 1966 suonò per la prima volta “Strawberry Fields Forever” ad un incredulo George Martin, il mitico produttore dei Beatles. Per un mega-speciale della Bbc il figlio avuto con Yoko Ono, Sean Ono Lennon, ha intervistato un certo numero di celebrità globali sull’eredità del padre, tra cui un commosso Paul McCartney, che non ha avuto timore nel parlarne come si parla di un grande amore, ribadendo un’intesa intellettuale ed emotiva che – in effetti – ha scatenato le scintille più luminose del Novecento, spostando l’epicentro della creatività globale verso un territorio nuovo, la cosiddetta “rock revolution”, che ha sconvolto le categorie della musica con un balzo creativo che ha avuto un impatto sociale e culturale che ancora stentiamo a comprendere fino in fondo: il “sogno” degli anni sessanta non era solo un sogno, ha cambiato i rapporti tra le generazioni, è stato un movimento di liberazione collettiva di cui obiettivamente John Winston Lennon, nato il 9 ottobre 1940 a Liverpool nel bel mezzo di un raid aereo dei nazisti, è stato dei principali responsabili.
Ed è un tragico segno della storia che solo 40 anni dopo – rieccola, la cabala dei numeri – l’8 dicembre 1980, l’eroe della non-violenza Lennon viene ucciso con cinque colpi davanti all’ingresso di casa, il Dakota Building a New York, da un “nowhere man” di nome Mark Chapman, che alle 22.50, poche ore dopo essersi fatto firmare dal suo idolo la copertina dell’ultimo disco, gli sibilò: “Ehi, mister Lennon, sta per entrare nella storia”. Poi aprì il fuoco.
“Siamo tutti dio”, amava ripetere John. “Non credo in Gesù, non credo nella Bibbia, non credo nello yoga, non credo in Elvis, non credo nei Beatles, non credo in Dylan”, cantava Lennon in “God”, contenuto nel primo album solista dopo lo scioglimento dei Beatles, anno domini 1970. Parole e versi nelle quale si racchiude la contraddizione del “caso Lennon”: così come successe subito dopo il suo assassinio, quando a migliaia si radunarono a Central Park (e certo non solo lì) in lacrime, il rischio anche oggi è quello di una sorta di santificazione di John.
Cosa che lui rifiutava assolutamente: Lennon è il musicista che più di ogni altro ha saputo mettere a nudo la propria intimità e la propria fragilità, la propria mortalissima umanità, da “Mother” – dedicato alla lancinante assenza di sua madre Julia, che l’aveva abbandonato da piccolo e che poi morì in un incidente stradale quando lui aveva appena 17 anni – alla tenerissima “Jealous Guy”, passando per il terrificante mantra beatlesiano di “I Want You”, dedicate al suo rapporto edipico con Yoko Ono.
Fino alla stessa “Imagine”: sì, perché l’inno pacifista per eccellenza altro non è che una preghiera all’incontrario, capovolta. Semplicissima, come tutte le vere preghiere. Non si rivolge ad un dio, bensì ad una persona qualunque. A tutte le persone qualunque del globo terracqueo. Dice, questa preghiera: immagina che non vi siano più guerre, che non ci sia più la fame nel mondo, immagina che non vi siano più motivi per uccidere o morire. E ancora: immagina che vengano spazzati via il possesso, immagina che non ci siano più Stati. E, colpo di scena, dice anche: immagina che non ci sia più la religione. Ma il verso cruciale è un altro: “Io sono un sognatore, ma non sono l’unico. Spero che un giorno ti unirai a noi”.
Il punto è che questa delicata, fragile canzone - fatta solo di voce, pianoforte, basso e batteria - riusciva ad esprimere esattamente ciò che milioni avevano nel cuore, nel 1971. Che fosse il Vietnam o l’idea che un altro mondo fosse possibile, non fatto di avidità e guerra, il sentimento generale era quello lì: e a Lennon gli credevano, perché era stato lui in quegli anni - quando il mondo dall’essere in bianco e nero stava per diventare a colori - a “inventare” la parola “love”, amore, in un senso che non fosse la palpitazione per la ragazza del vicinato e nemmeno l’amore mistico del cristianesimo messianico, ma il paradigma di un’epoca di svolta: “love” diventò il principio di una nuova forma di convivenza, di un nuovo modo di intendere l'esistenza in un contesto contemporaneo.
Dopodiché, Lennon non fu certo solo un sognatore pacifista. Era uno capace di dire “credo che siamo governati da maniaci, mossi da fini maniacali”. Era quello di “Revolution” (sull’Album Bianco dei Beatles, nel bel mezzo del paradossale furore del 1968), era quello di “Working Class Hero”, dove lui che proveniva dai sobborghi di Liverpool attaccava a viso aperto i condizionamenti sociali, l’oppressione delle istituzioni, dalla scuola all’esercito alla famiglia.
Ed era un formidabile sperimentatore musicale, che grazie all’incredibile incontro con (almeno) altri due geni – Paul McCartney e George Harrison – ebbe il coraggio di scombinare l’idea stessa di musica, e questo mentre i Beatles erano all’apice di una fama planetaria come non si era mai vista: pezzi ancora oggi considerati avanguardia, come “Tomorrow Never Knows”, dal ritmo implacabile e dalle futuribili invenzioni sonore, a quella “A Day in the Life” che, scritta insieme a Paul, è niente di meno che l’universo amministrato in soli quattro minuti, con un accordo finale eseguito da tre pianoforti all’unisono che nel pieno dell’“anno santo” del rock (il 1967) scombussolò le nozioni di musica alta e bassa, popolare e colta, di massa e di sperimentazione.
Narrano che ovunque si sentissero per la prima volta le note di “Sgt. Pepper’s”, l’album stellare da cui quel pezzo è tratto, tutto si fermava: che ci si trovasse ad un distributore di benzina del deserto del Nevada o in un locale alla moda della Rive Gauche a Parigi, di colpo a chiunque fu chiaro che non si era mai sentito niente del genere e forse mai qualcun altro sarebbe stato in grado di creare qualcosa di paragonabile.
Oggi, per il suo ottantesimo compleanno, in qualche modo parliamo ancora – tra concerti onorifici ai quattro angoli del mondo, in genere in streaming a causa della pandemia, e l’ennesima raccolta di cd con “the best of the best” della sua musica, non a caso intitolata “Gimme Some Truth” – di una sorta di John Lennon “eterno”, la cui immagine sembra congelata in un presente infinito, come in genere succede alle icone.
Anche se c’è un film che “gioca” con l’idea di un John Lennon “vecchio” (“Yesterday”, 2019, di Danny Boyle), è un bizzarro segno del destino che uno dei suoi ultimissimi successi, in quello strano 1980 in cui tornò alla ribalta dopo cinque anni di silenzio passati a fare solo il papà e che segnò il suo feroce e incommensurabile assassinio, fosse per l’appunto “Just like Starting Over”: “È come se entrambi ci innamorassimo di nuovo / sarà come ricominciare daccapo”, cantava John, con la gioia di un ragazzo. Lo stesso ragazzo ribelle che con la giacca di pelle appena vent’anni prima (ancora la cabala dei numeri…) aveva scombussolato insieme a Paul, George e Ringo prima i localini di Liverpool per poi conquistare il mondo, portandolo per mano da un rivoluzionario “yeh, yeh, yeh” ad una terra promessa che forse ancora non ci siamo meritati.