AGI - Era una mattina di 30 anni fa: quel 21 settembre 1990, il giudice Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento. E' stato avvicinato, braccato e ucciso da un commando mafioso. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che é poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia".
Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che una volta definì "martire della giustizia e indirettamente della fede", quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lanciò il suo anatema contro i mafiosi. E' in corso il processo di beatificazione del magistrato, avviato nel settembre 2011.
Molte le iniziative per ricordarlo, con la presenza nel pomeriggio, al Palazzo di giustizia di Palermo, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al seminario su "Deontologia e professionalità del magistrato. Un binomio indissolubile". Un anniversario su cui una settimana fa è piombata la notizia della concessione di un permesso premio a uno dei mandanti condannato all'ergastolo, Giuseppe Montanti. "Una tragica beffarda coincidenza", ha commentato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio.
Il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, da Marsala Paolo Borsellino.
Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente della Prima Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo. Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la 'Tangentopoli siciliana' e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.
La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro "Il giudice ragazzino", titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. "Livatino e la sua storia - scrive Dalla Chiesa - sono uno specchio pubblico per un'intera società e la sua morte, più che essere un documento d'accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d'accusa contro il complessivo regime della corruzione". Lascia un testamento morale e professionale importantissimo e attualissimo.
"Il giudice - diceva Livatino - oltre che essere, deve anche apparire indipendente. È importante che egli offra di se stesso l'immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile; e, potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch'egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha".