AGI - Il Papa non sapeva, o forse sapeva benissimo, che se alla Parola è legato il destino dell’Uomo, alle parole è spesso legato il destino degli uomini e quello degli imperi. Così Pio IX, che notoriamente con le parole amava giocare, di stupore dovette manifestarne ben poco nel venire a sapere che era appunto giocando con le parole che il Cancelliere di Ferro aveva ridotto la Francia a ruolo di potenza semivassalla, lasciando conseguentemente che i Piemontesi si facessero un boccone di Roma.
Aveva riferito, Bismark, a modo suo di un incidente diplomatico tra Napoleone III e Kaiser, facendo irritare l’uno e costringendo l’altro a mobilitare l’esercito. Portò così entrambi sul campo di battaglia di Sedan – come non volevano loro ma voleva lui – e alla fine il Bonaparte ormai privo dei denti perse l’impero, mentre Bismark ebbe il suo Reich per l’interposta persona di Guglielmo.
Nel qual mentre il Pontefice aveva perso l’unica potenza che garantisse l’esistenza in vita del suo Regno, erede di un’Impero ancora più antico ma rimasto senza mezzi e senza uomini a contrastare le profetiche parole di un Cavour spirato anni prima. Tutto poté così procedere secondo il volere dei tempi: volere che prese la forma di un corpo di spedizione di bersaglieri.
Meretricio e santità
Bisogna essere precisi: non un drappello di poche centinaia di uomini si trattò, ma di un vero e proprio corpo di spedizione di circa ventimila effettivi, messo su grazie all’autorizzazione, opportunamente rilasciata dal Parlamento del Regno d’Italia, a sforare le allora vigenti leggi di spesa. Quando si tratta di fare la Storia, si vede, il bilancio è cosa relativa. Sarà per questo che in questi ultimi decenni non è mai stato fatto nulla di memorabile.
Furono dislocate, le forze italiane, tutt’intorno le Mura Aureliane che ben altri eserciti avevano conosciuto. Quanto al comando, fu posto nel giardino – ancora adesso elegante e seminascosto – di Villa Albani, sulla via Salaria. La collocazione è evocativa: proprio nello stesso punto, quattordici secoli prima, si era accampato Alarico al capo dei Visigoti. Avrebbe atteso tre giorni, poi le porte della città si sarebbero spontaneamente aperte per il Sacco che segnò il tramonto del Mondo Antico.
Gli emissari delle forze sabaude sollecitarono il parley. Si incontrarono a Ponte Milvio con il comandante delle milizie pontificie, un generale tedesco di nome Hermann Kanzler: così, per la seconda volta in poco tempo, un cancelliere teutonico tenne nelle mani il destino della Chiesa. Kanzler, a differenza di Bismark, agì però secondo le istruzioni del suo Re. Pio IX era stato chiaro: nessun attacco contro gli italiani, ma anche nessuna resa diplomatica. Il Regno non accettava la dolce morte né intendeva acconsentire al fine vita, per non parlare di testamenti ideali o biologici: doveva essere chiaro a tutti che di atto di violenza contro uno stato sovrano, da parte di una potenza straniera, si sarebbe trattato. Il Noli me tangere fu riportato per le vie più brevi a Luigi Cadorna, che a quel punto sapeva già che cosa fare.
Adesso però è necessario rendere giustizia a chi, in fondo, la merita anche se si trova dal lato sbagliato della Storia.
La Roma degli ultimi Cesari, di fronte ad Alarico, aveva aperto essa stessa le porte, come una vecchia e sfatta meretrice piegatasi alle voglie confuse di un ragazzotto divenuto provvidenzialmente maggiorenne appena prima dell’entrata in vigore della Legge Merlin. La Roma dell’ultimo Papa Re, al contrario, mantiene la sua dignità.
In cuor suo ha già abdicato – ad impossibilia nemo tenetur – e Mastai Ferretti ha appena chiuso il Concilio che prepara alla Chiesa il suo nuovo ruolo, e la nuova sede. Ma sì, la Chiesa sarà pur sempre casta et meretrix, però il viale del tramonto deve essere imboccato a testa alta, senza peripatismi: si tratta pur sempre dell’erede di quel Papa che incoronò Carlo, dando vita all’impero dei Franchi come a quello dei Germani. Gli italiani no: al massimo potevano rifarsi ad Arduino d’Ivrea, che fu spazzato via come un fuscello.
Comunque anche Cadorna attese tre giorni, prima dell’attacco. Intanto scelse con cura il punto, tenendo in considerazione più il simbolo che la strategia, più la logistica che le esigenze militari. Il tratto in cui le decrepite Mura Aureliane erano particolarmente decrepite, infatti, andava e va da Porta Pia in giù, verso quello che oggi è il Policlinico intitolato ad un Savoia.
Parla la bombarda
Lui invece decise altrimenti, e la bombarda prese a martellare sul lato opposto di Porta Pia, in direzione di Porta Salara. Non di svista si trattava, però, né di incompetenza. Il fatto è che accostata all’altro lato del muro che si sarebbe in poche ore sgretolato, verde di cipressi e carica di pini, si ergeva e si erge a tutt’oggi Villa Paolina Bonaparte, ultima residenza romana della sorella di Napoleone. Consumandosi il ramo principale dei Napoleonidi, era passata ad eredi riparatisi con tutto il resto dell’Urbe sotto l’ala protettrice del pronipote Luigi, marito della cattolicissima Eugenia di Montijo. Ma ora lui e lei contavano meno del prozio quando era a Sant’Elena, quindi ci si poteva togliere lo sfizio di distruggergli la casa.
Il primo colpo di cannone parte intorno alle cinque e un quarto di mattina, il 20 settembre 1870. Piazza San Pietro viene presidiata da due compagnie di fanteria mentre il corpo diplomatico arriva in carrozza per partecipare alla messa del papa, che ha tutto il sapore di una messa di commiato. Poche ore dopo una crepa si apre, un grido di vittoria si alza e, nonostante i colpi di moschetto di due distaccamenti di zuavi, parte la carica dei bersaglieri cui nulla, verrà scritto nel 1932 alla base del monumento loro dedicato, può resistere. Roma è italiana, requiem per un regno millenario ormai passato a miglior vita.
Sul ponte sventola bandiera bianca e gialla
Nel frattempo Pio IX, scrive Giulio Andreotti (che di certe cose s’intendeva davvero bene), attende l’epilogo giocando ancora con le parole e confezionando sciarade.
Al Quirinale il cardinal Antonelli chiude e sigilla la porta che immette nel Salone degli Svizzeri. Poi lascia il Palazzo, per sempre, seguito dagli Svizzeri alcuni dei quali hanno abbandonato la divisa e vestito abiti civili. Dal Torrino un drappo bianco sventola a segnare la fine delle ostilità. Come spesso capita nei momenti fatidici, la materia prima non è adatta alla solennità del frangente: si tratta di un lenzuolo usurato che aveva accolto fino a poche ore prima il riposo di un giardiniere.
Ma attenzione: una bandiera banca e gialla, onore di San Pietro, sventola ancora per un po’ dai merli della Fortezza Pia, a dispetto del compiersi degli eventi.
Verrà conservata per quasi 150 anni dalla famiglia Ruspoli. Nobiltà nera, ora e sempre. Soprattutto allora: una Ruspoli, Cristina, è infatti moglie di Carlo Napoleone Bonaparte, il proprietario di Villa Paolina. La donna manda a prendere il vessillo crivellato dai proiettili ed ogni anno, il 20 settembre, i suoi discendenti lo espongono per rendere omaggio ai 19 zuavi morti nella polvere di Porta Pia.
La tradizione continua fino a quando – è il 2011, centocinquantesimo dell’Unità d’Italia – la famiglia consegna il drappo all’allora erede di Antonelli alla segreteria di Stato, Tarcisio Bertone cardinale di Santa Romana Chiesa. Forse non sono queste le intenzioni, ma la cosa ha tutto il sapore della resa degli irriducibili.
Nel frattempo il sottotenente Cocito del 12° Bersaglieri ha già dato l’annuncio tramite dispaccio inviato per telegramma: “Ore 10. Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperta in quattro ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado una vigorosa resistenza”. Le perdite per gli italiani ammontano a 49 morti, di cui quattro ufficiali, e 141 feriti, tra cui nove ufficiali.
Guerra simbolica sarà stata, ma vallo a spiegare ai caduti.
Chissà che Muro era
Per fortuna ci sono anche i sopravvissuti, ed è con la storia di uno di questi che conviene chiudere questa rievocazione. Si tratta di un bersagliere semplice, uno talmente inutile agli occhi del mondo che, pur essendo uno dei Bersaglieri di Porta Pia, non ne è rimasto quasi nemmeno il nome. Sappiamo di lui solo perché la sua storia giunse negli anni ’60 del Novecento ad Antonino Uccello, poeta, antropologo e studioso di canti popolari siciliani, tramite il racconto della bisnipote ormai a sua volta molto anziana.
Il bersagliere era di Canicattì, e quando tornò a casa dopo aver servito nelle file del Regio Esercito scoprì che tutti lo piangevano morto. Inevitabile: non sapeva né leggere né scrivere e di conseguenza non aveva mai dato sue notizie. Alla famiglia però raccontò di essere stato a Roma, con un cappello di piume tutte colorate, e che lì aveva fatto una grande festa con i suoi compagni, perché dopo una lunga corsa avevano abbattuto un muro. Detto questo, dopo aver dato il cappello ai figli perché ci giocassero, aggiungeva: “Chissà che muro era …”.
Direbbe Agostino d’Ippona, padre e dottore della Chiesa: humilitas occidit superbiam. Lo scrisse dopo che Alarico aveva preso Roma.