AGI - Ergastolo. E’ questa la parola che mette fine ai dubbi: sui legami tra la ‘ndrangheta e Cosa Nostra, sull’idea delle mafie di attentare al cuore dello Stato e sulla successiva ipotesi di trattativa. Questa parola, che significa carcere a vita, è stata pronunciata dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria giovedì, quando è stata letta la condanna per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati di essere i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. “Una sentenza storica”, secondo Antonio Ingroia, avvocato, ed ex pm del processo sulla trattativa Stato-mafia. Ingroia, poi dimessosi dalla magistratura per candidarsi alle elezioni nel 2013, ha rivestito, nel processo 'Ndrangheta stragista, il ruolo di legale di parte civile per le famiglie dei carabinieri Fava e Garofalo.
Che cosa rappresenta questa sentenza, riflettendoci a distanza di qualche ora?
E’ un risultato storico. Dopo 26 anni finalmente vengono individuati e condannati i mandanti interni alle mafie di quel duplice omicidio, in cui rimasero vittime due carabinieri, fedeli servitori dello Stato. Anche se in questi giorni molti scandali stanno colpendo l’Arma, non bisogna dimenticare che tanti, che vestivano quella divisa, hanno sacrificato la propria vita per una missione. La condanna era particolarmente attesa dai familiari di quei due giovani carabinieri, che per 26 anni hanno aspettato di avere giustizia, dopo che lo Stato era riuscito ad individuare solo gli esecutori materiali. Inoltre si tratta di un processo simbolico, anche perché è avvenuto davanti ad una Corte d’Assise, quindi con i giudici popolari.
La loro presenza rappresenta il convincimento popolare sul fatto, ormai appurato, che le mafie collaborarono tra loro con l’intenzione di sovvertire lo Stato. Per la prima volta sono stati condannati assieme un capo di Cosa Nostra, Graviano e un boss della ‘ndrangheta, Filippone, certificando un legame fra le due organizzazioni. Un legame che si era intuito ma che non era mai stato provato. Ma bisogna ampliare lo sguardo: è ormai certo, dopo questa condanna, che le mafie italiane, da Cosa Nostra, alla Camorra, alla ‘ndrangheta, non sono separate, ma sono articolazioni di un unico disegno criminale, che mina alle fondamenta dello Stato.
Che cosa cambia dopo queste condanne?
Dal dibattimento e dalla requisitoria, ma anche nelle conclusioni delle parti civili, è emerso che potrebbe nascere un secondo processo che vada più a fondo. Serve adesso arrivare ai ‘mandanti esterni’, ovvero tutti coloro che, negli apparati deviati, sapevano o hanno collaborato al disegno criminoso. Ho considerato la mia arringa di parte civile come una prosecuzione del mio lavoro da pm, quando 15 anni fa aprii l’indagine che ho seguito per ben sette anni sulla trattativa Stato-Mafia. E il fatto che il pm di Reggio Calabria nella sua requisitoria, abbia citato proprio quell’indagine per me è motivo di grande orgoglio. Dalle sue parole la piena conferma che una trattativa è esistita.
C’è un altro elemento che bisogna osservare: la Corte ha disposto la trasmissione alla Procura di alcuni atti. Un gesto che fa ben sperare sul fatto che un troncone bis possa nascere. Per prima cosa bisogna fare chiarezza su quanto riportato in una memoria di Graviano. In quelle righe il boss parla a mezza bocca, ma compaiono elementi sulla Massoneria deviata, sui Servizi Segreti e sulla politica infedeli. Sarà questo il pilastro fondamentale di un eventuale processo bis, che dovrà adesso individuare i mandanti esterni, ovvero quelli al di fuori delle organizzazioni criminali.
Perché la ‘ndrangheta non ‘venne fuori’ in tutta la sua crudeltà e potenza nel periodo delle stragi, ma solo dopo?
La criminalità calabrese fu più astuta di Cosa Nostra, dando un’apparenza di basso profilo, coinvolgendosi raramente in delitti contro uomini dello Stato. E’ riuscita a far passare un’immagine falsa: di contadini assassini e rozzi, organizzati in un sodalizio criminale arcaico. Fino a pochi anni fa, la ‘ndrangheta è stata sottovalutata: invece si è rivelata un’organizzazione potente, ormai la più ramificata in Italia ma anche nel mondo. Bisogna però sempre tenere presente che agisce secondo criteri di rigorosa convenienza. E’ emerso che tra il ’93 e il ‘94 fu pungolata da Cosa Nostra per partecipare agli attentati, ma rimase in una posizione secondaria.
Qual è la parte della politica in questo quadro?
Le mafie individuarono nell’ascesa del centrodestra di Silvio Berlusconi, la finestra attraverso la quale penetrare e cominciare ad incidere. Non perché siano ideologiche, ma perché era quello il carro del vincitore su cui puntare. E d’altra parte una condanna definitiva ha accertato che Dell’Utri era l’uomo di Cosa Nostra. La nuova inchiesta, che seguirà la sentenza reggina, dovrebbe espandersi, dall’ultimo anno a ridosso dei delitti del ‘94, almeno ai dieci anni precedenti. Accuse sempre rigettate dagli avvocati dell'ex premier.
Esistono ancora, secondo Lei, rapporti tra le mafie e apparati deviati dello Stato?
Temo di sì. Ma siccome i rapporti di forza con la politica sono cambiati, e non ci sono i partiti su cui la mafia aveva investito, è facile che gli orizzonti si stiano ridisegnando, per stabilire legami con forze politiche fresche. Ad oggi non abbiamo fonti di prova che ci consentano di avere un quadro chiaro. Ma va fatta una riflessione: nel ‘93-‘94 eravamo nella stessa situazione: non avevamo in mano tutti i pezzi, ma un uomo su cui lavorare, Dell’Utri. Da allora sono passati 26 anni. Spero che non passino altri 26 anni per avere un quadro concreto di quelli che succede oggi, mentre noi non ce ne accorgiamo.