AGI - "Il ministro Bonafede, dicendomi che per l'incarico alla Direzione Affari penali non c'erano dinieghi o mancati gradimenti mi fece intendere che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto prospettazioni di diniego o di mancato gradimento. A cosa si riferisse non è compito mio, lo potrebbe dire solo il ministro". È il punto cruciale della lunga audizione di Nino Di Matteo, ex pm del processo trattativa e oggi togato al Csm, che davanti alla Commissione parlamentare Antimafia, è tornato a parlare della sua mancata nomina a capo del Dap nel giugno 2018, già al centro di un ‘botta e risposta’ in diretta tv con il Guardasigilli e delle mozioni di sfiducia – respinte dal Senato – che furono presentate dalla Lega e da Emma Bonino nei confronti del ministro. "Per me quindi il dietrofront del ministro avvenuto in meno di 24 ore - ha aggiunto - non era più una vicenda personale, ma una vicenda istituzionale".
Il magistrato ha ripercorso i fatti avvenuti nel giugno 2018, quando, il giorno 18, Bonafede lo contattò alle 13,30 per "dirmi - ha raccontato - che voleva farmi delle proposte, che aveva pensato a me o alla guida del Dap, o alla Direzione degli affari penali, incarico questo, possibile solo in un secondo momento, verso settembre/ottobre. Mi propose o generale da subito, con la nomina al Dap, o un ruolo eventuale e futuro da capitano se avesse convinto la dottoressa Donati, che era stata nominata dall'ex ministro Orlando agli Affari penali, a lasciare quel ruolo".
Quindi, "chiesi al ministro 48 ore di tempo - ha riferito Di Matteo - ma lui mi disse che voleva una risposta più veloce, per inoltrare subito al Csm la richiesta di collocamento fuori ruolo, per sfruttare il plenum che si svolge di mercoledì. In quel momento era ovvio che la richiesta fuori ruolo poteva riguardare solo l'incarico al Dap. Presi atto dell'urgenza e dissi che sarei andato il giorno dopo al ministero per dargli una risposta. Più volte, durante la telefonata, Bonafede mi disse 'scelga lei'. Io non ho avuto nessun dubbio per accettare l'incarico al Dap, e sono andato al ministero non per discutere, ma con l'intenzione di comunicare l'accettazione dell'incarico".
La marcia indietro di Bonafede
Il giorno dopo, quindi, Di Matteo "verso le 11" ha incontrato Bonafede in via Arenula: "il ministro, con mia certa sorpresa - ha riferito alla Commissione - iniziò a dire che quello al Dap era sì un incarico importante, ma che vedeva a suo dire prevalere aspetti che non vedeva confacenti alla mia pregressa esperienza, alle mie attitudini, e insisteva per gli Affari penali, sul fatto che era stato l'incarico di Falcone. Per il Dap non era più disponibile, dopo meno di 24 ore, e mi disse che per quell'incarico aveva pensato a Basentini, di cui infatti quello stesso giorno chiese il collocamento fuori ruolo". Una volta uscito dal ministero, ha raccontato ancora Di Matteo, "presi il telefono, richiamai il ministro e gli chiesi di potergli parlare di nuovo il giorno dopo, lui mi disse di sì e quando andai, la mattina del giorno successivo, gli dissi di non tenere assolutamente in conto la mia disponibilità per gli Affari penali, che era inutile che mi ricontattasse a settembre".
Bonafede, ha aggiunto il togato del Csm, "insistette più volte, e al momento di congedarci mi disse 'ci sto rimanendo male, la prego di rifletterci, per quest'altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengano'. Non chiesi - ha continuato Di Matteo - chi o cosa avesse rappresentato il problema che lui mi prospettava di diniego o mancato gradimento. Mai mi sarei sognato di chiedere al ministro cosa fosse accaduto".
Di Matteo ha spiegato anche perché abbia deciso di rendere pubblica la vicenda a distanza di due anni, in diretta tv a ‘Non è l’Arena’: "Non volevo, nonostante fosse per me incomprensibile il comportamento del ministro, rischiare di delegittimare il suo ruolo e quello del capo del Dap. Nell'ultimo periodo, però, sono accadute alcune cose: c'erano state centinaia di scarcerazioni di detenuti per mafia, avevo saputo dai media della circolare del 21 marzo, Basentini si era dimesso, e iniziavano nuovamente a circolare voci di un incarico alla mia persona".
"Il ministro non era in grado di valutare certe dinamiche"
Per l’ex pm antimafia, in particolare, le scarcerazioni “sono state un segnale devastante dal punto di vista simbolico, e che purtroppo, dal punto di vista mafioso, viene letto come cedimento, come speranza". E ancora: "Se avessi avuto notizie di reato – ha continuato Di Matteo - avrei avuto la sede per riferirle, ossia le procure della Repubblica, se avessi avuto elementi per ritenere che il ministro aveva cambiato idea perché indotto dai mafiosi lo avrei detto. In quel momento, l'idea che ho avuto è che il ministro non era in grado di valutare bene certe dinamiche della lotta alla mafia", ricordando anche di aver parlato al Guardasigilli della nota del Gom in cui venivano riportate proteste di detenuti al 41 bis relative alle voci sulla sua possibile nomina al Dap "non per farmi bello - ha detto il magistrato - ma perché avevo dubbi che non ne sapesse nulla, e lo volevo avvertire, per un senso di collaborazione istituzionale”.
Di Matteo, infine, ha voluto evidenziare che "non è corretto parlare di percezione o di malinteso, perché mi si dipinge come un raccontaballe o come uno che non ha capito”.