La domanda che poneva più spesso agli interlocutori nelle sue memorabili interviste era "Cos'è per lei la morte?". E chi seguiva la rubrica tenuta sul Messaggero fino a pochi mesi fa non poteva non notare come Roberto Gervaso, giunto all'ultimo capitolo di una vita intensissima, insistesse sempre più sul tema della fine, con la stessa malinconica leggerezza con la quale ironizzava sulla rinuncia ai piaceri al quale lo avevano costretto la salute e l'eta.
Il desiderio e la morte, eros e thanatos, sembravano le due principali ossessioni del giornalista e scrittore, nato a Roma ma adottato da Torino, spentosi oggi a Milano a 82 anni. Il suo grande amore era invece la storia, passione che riversò in una produzione libraria sterminata e di grande successo popolare. Collaborò anche alla monumentale, e vendutissima, "Storia d'Italia" di Indro Montanelli, sotto la cui ala iniziò la sua carriera di cronista.
L'incontro con Montanelli
Da ragazzo Gervaso ritagliava e conservava religiosamente ogni articolo del suo futuro maestro e nel 1956, come regalo della maturità, si risolse a recarsi a Roma per conoscerlo. A Montanelli quel giovane piacque subito, tanto che lo fece entrare prima al Corriere dell'Informazione e poi se lo portò al Corriere della Sera, dove ne fece un inviato.
Un debito che Gervaso ha sempre ricordato con orgoglio e riconoscenza. Difficile inoltre che i due non entrassero in sintonia: in un Paese diviso tra democristiani e sinistre, appartenevano entrambi a una categoria politica e antropologica in Italia poco diffusa allora come oggi, quella dei conservatori anarchici; liberali, libertari e, perché no, libertini.
Quando negli anni '70 a via Solferino arrivarono i Crespi e impressero la svolta a sinistra, furono costretti entrambi ad andarsene. Gervaso portò la sua penna tagliente sul Mattino, sul Gazzettino, sul Giornale.
La vasta cultura umanistica e il senso dell'umorismo ne fanno un opinionista nato, nella politica come nell'attualità più mondana. Scrive su periodici, tiene programmi radio e infine approda in televisione, dove nel 1996 avrà un programma tutto suo: "Peste e Corna... Gocce di storia", in onda per 10 anni.
Un dandy d'altri tempi
Diventa così un volto inconfondibile anche per chi i giornali manco li apre, quasi un'icona pop con quel suo look da dandy d'altri tempi, i suoi papillon (ne possedeva trecento) e i suoi cappelli Borsalino (ne aveva un centinaio). Appare spesso sul piccolo schermo anche come ospite, giocando la parte che gli piace di più, quella del fustigatore di costumi, del "grillo parlante", per citare il nome di una sua celebre rubrica.
Ad animare la sua vasta produzione di aforismi (affermò di averne scritti 25 mila) era proprio l'appassionata curiosità per i vizi e le contraddizioni del nostro popolo, "italiani pecore anarchiche", come da titolo di un suo volume. Lo stesso spirito mordace con il quale conduceva le interviste, branca del giornalismo nel quale eccelleva e inventò uno stile che avrebbe trovato tanti epigoni, fatto di scambi di battute rapidi e fulminanti, simili a incontri di scherma. Uno spirito vivace e autoironico (sul suo controverso ingresso nella P2, disse che voleva entrare in una loggia massonica per scriverci un libro) che aveva un lato oscuro.
La lotta con la depressione
Gervaso combattè la depressione tre volte, a 23, 34 e 70 anni ("in tutto mi ha portato via 10 anni di vita", avrebbe raccontato a Luigi Mascheroni in un'intervista tenuta in occasione del suo ottantesimo compleanno), una battaglia che raccontò nel libro "Ho ucciso il cane nero".
Pari alla vis polemica con la quale Gervaso sferzava il suo Paese, c'era infatti solo l'onestà con la quale sapeva mettersi a nudo di fronte ai suoi lettori. E il "rispetto per il lettore" è una sua grande lezione: "Mai farlo sentire ignorante - avvertiva - Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia". Del resto il giornalismo, disse ancora in quell'intervista di due anni fa, "è diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura".