Un crocifisso con 86 nomi di persone morte quasi tutte coi sintomi del coronavirus. “Forse esteticamente non è bello da vedersi, ma sento il bisogno di condividerlo. Chi lavora qui porta dentro di sé una croce simile. Tra di noi a volte non siamo d’accordo su tante cose ma sul rispetto per gli ospiti sempre”, spiega la donna che ha fatto avere all'AGI questa fotografia dalla cappella della casa di riposo ‘Camillo Lucchi’ di Crema.
Fa parte di quella categoria di persone che che definiamo operatori sanitari ma che sono stati figli, fratelli, sorelle, preti, necrofori di questi uomini e donne. Preferisce restare anonima, teme ripercussioni sul suo futuro professionale perché il suo è un racconto molto crudo. A tirare su con tre assi di legno l'opera è stato chi lavora all’interno della Fondazione Benefattori Cremaschi di cui fa parte la residenza per anziani.
I nomi sono riportati in ordine alfabetico, di alcuni c’è anche la foto, a volte spunta un sorriso, sempre uno sguardo sereno. In un primo momento, l'avevano messa vicino all'entrata della chiesa per permettere al vescovo di benedire la struttura in mancanza della messa che di solito celebra a Pasqua.
Alla base c’è una pianta, le foglie verdi e brillanti che sembrano alludere che in quei nomi è passata tanta vita.
La donna dello scatto è una dei cinque dei dipendenti che si prendono cura di 200 ospiti, ora diventati quasi la metà. Capire quanti in questa casa di riposo che ha radici antiche, fino al 1500, siano deceduti per coronavirus non è possibile perché i tamponi sono iniziati solo da alcuni giorni.
“Non sempre la dichiarazione di decesso è stata fatta subito dopo la morte. Abbiamo avuto anche 5 persone mancate in una notte e non sapevamo nemmeno come portarle in camera mortuaria. Non avevamo abbastanza carrelli dedicati al trasporto delle salme, alcuni li abbiamo portati con le barelle che usiamo per fargli il bagno. Non ci stavano tutti nella camera mortuaria e li abbiamo messi nella cappella. Un giorno ho contato 12 casse e 3 morti in barella”.
Quasi tutte le persone poi spirate, dice, “hanno avuto i sintomi del coronavirus, febbre alta e saturazione molto bassa, ma non mi risulta che nessuno di loro sia stato curato coi farmaci che vengono utilizzati per questo tipo di pazienti. Gli sono stati forniti antipiretici, ossigeno e la morfina nelle fasi terminali”.
A tutti, assicura, è stata garantita la dignità dell’ultimo passo. “Abbiamo pena dei nostri morti perché li sentiamo nostri. Non nascondo di piangere per alcuni di loro, li considero come dei parenti. Dopo l’ultimo respiro, ognuno è stato cambiato e rinfrescato e gli è stato messo in mano un rosario. Un segno di devozione per persone con cui abbiamo trascorso tantissimi anni”.
L’aspetto “più penoso” per questa donna che ha una radicata esperienza nel suo lavoro “è mandare le condoglianze a quei parenti che, negli anni, sono diventati amici. Alcuni di noi li hanno videochiamati col cellulare, sono state telefonate molto emozionanti”.
Ci mostra un messaggio in cui comunica la morte di un signora a un parente: “Sai che aveva i suoi preferiti: c’eravamo. Riposa certamente in pace, mi viene da immaginarla mentre gioca a carte con le sue amiche e vuole vincere a tutti i costi”.
Dopo che sono morti, ha voluto scriversi dei brevi appunti sugli ospiti a cui era più affezionata. Ecco alcuni dei ‘ritratti’: “Osservava molto e parlava poco. Sceglieva con chi parlare. Profondo”; “Il piacere di parlare con una persona intelligente e accogliente. Il suo sorridere”; "Una vita insieme, amava o odiava, niente vie di mezzo. Un mazzolino di violette da campo da portare alla Madonna in Chiesa"; “Da poco arrivata, così presto andata, osservava molto e portava rispetto”.