Abituato ad andare a mille all’ora, con le parole e con i progetti, Luca Viscardi a un certo punto si è trovato in un tempo sospeso e turbolento, “appoggiato su una barella per due giorni” al pronto soccorso del ‘Papa Giovanni’ di Bergamo, ma “in quel momento poteva essere tranquillamente Baghdad in tempo di guerra”.
Il direttore di Number One e seguito conduttore radiofonico sta affrontando l’ultima fase delle cure in una clinica, dove con calma lascerà l’ossigeno per tornare ad avere fiducia nei suoi polmoni, “una specie di svezzamento”. La sua è una storia, che affida all’AGI tra molti colpi di tosse, segnata da subito da gravi ritardi. Il 29 febbraio si presenta la solita febbre ostinata, e poi l’affanno, col presentimento che potesse trattarsi di Covid19 perché il compagno di microfono era positivo.
“Per molti giorni ho chiamato i numeri di emergenza, seguendo l’indicazione di non andare in ospedale. Solo il 9 marzo sono stato ricoverato al ‘Papa Giovanni’, un posto quanto a struttura da fantascienza rispetto alla media ma, una volta arrivato, l’impatto è stato traumatico: decine di pazienti nel corridoio, nelle salette d’attesa, bombole di ossigeno ovunque. Le persone messe sulla sedia a rotelle perché non c’erano abbastanza barelle”.
Qui Viscardi trascorre due giorni perché “non c’era posto in reparto”. “Per i pasti, passavano con un sacchetto con dentro un panino, c’erano tre bagni per 50-60 di noi, bisognava fare attenzione quando finivano le bombole per chiamare il ricambio, insomma una condizione devastante. Ogni tanto chiedevo di trasferirmi vicino a una presa di corrente per attaccare il telefono, prendevano la barella e mi mettevano 20 minuti a fianco della presa”.
In reparto, a livello logistico le cose migliorano tanto, ma qui inizia il ‘corpo a corpo’ con l’invisibile, “con 3 protocolli diversi di farmaci che si susseguono nei giorni; uno, quello, con le pastiglie usate per l’HIV, mi provoca effetti violentissimi”.
Viscardi fa ingresso un universo “surreale”, preda di “pensieri paranoici e un’ansia che nella mia vita prima non ho mai provato” e di “un fremito che mi attraverso nell’istante preciso in cui sto per dormire, impedendomi di entrare nel sonno”.
Per dieci giorni, il suo spazio si rimpiccolisce, “tra il letto e il comodino”. “Io, iperattivo, mi spengo, senza avere nemmeno la forza di scrivere a mia moglie”. La seconda fase del ricovero è quella del ‘casco’ per respirare. Il mondo “diventa mediato da un velo di plastica, sento solo dei rubi che soffiano aria in continuazione”. Quei giorni però sono quelli della cura vincente finché, “tre settimane dopo essermi sdraiato arriva la voce di Pietro, un giovanissimo infermiere pugliese da poco arrivato a Bergamo dalla Puglia che mi rimette in piedi".
“È lui che mi dice ‘Adesso non rompere le scatole e alzati', la sua presenza in corsia è uno stimolo pazzesco a migliorare, ma tutti, medici e infermieri, sono stati fantastici, di una dedizione commovente”. E’ quello il momento in cui viene accolta anche la supplica di tagliarsi barba e capelli. Inizia il recupero di un’identità, accompagnato da “migliaia di messaggi di affetto da parte degli ascoltatori sui social, dei colleghi e degli amici, un affetto che non avrei immaginato di poter muovere”.
“Non ho mai pensato di morire – rifllette Viscardi – sono un ottimista di natura. I medici mi hanno spiegato che il recupero è stato lungo perché sono arrivato tardi, infatti il mio collega ha avuto un percorso più rapido perché è stato curato prima. Cosa dirò quando torno in radio? Non vi siete liberati di me neanche stavolta!”.