Usare il plasma del sangue di chi è guarito per curare chi è ancora ammalato. È questo il principio che guida la sperimentazione in corso negli ospedali di Pavia e Mantova, dove si lotta dal primo giorno contro l’epidemia di coronavirus.
Il plasma, ovvero la parte più ‘liquida’ del nostro sangue, è composto da acqua, proteine, nutrienti, ormoni, ma è privo di cellule. Soprattutto, però, contiene una quota di anticorpi che si sono formati dopo la battaglia vinta contro il virus: “Si chiamano anticorpi neutralizzanti, si legano all’agente patogeno e lo marcano” spiega all’AGI il dottor Massimo Franchini, ematologo e primario del centro trasfusioni dell’ospedale della città (l’Asst Poma).
“Il concetto di plasma convalescente - aggiunge - è in pista da 30 anni. Inoltre, nelle altre due epidemie da coronavirus, ovvero la Sars del 2002 e la Mers del 2012 è stato adoperato con successo; infine l’Organizzazione mondiale della sanità ne ammette l’utilizzo nel caso di malattie gravi per cui non ci sia un trattamento farmacologico efficace”.
Ad aggiungere sicurezza alla sperimentazione che è stata avviata in Lombardia ci sono i risultati pubblicati dai medici cinesi, che per primi hanno avuto a che fare con il Covid 19, “sul Journal of American Medical Association (Jama) e che si sono rivelati positivi”.
E’ per questo che l’equipe del policlinico San Matteo di Pavia, guidata dal professor Cesare Perotti ha deciso di avviare la sperimentazione, e l’azienda sanitaria di Mantova si è aggiunta. “I tempi sono stati velocissimi - spiega ancora Franchini - abbiamo elaborato in una settimana un protocollo che avrebbe richiesto tre mesi”.
Ma in cosa consiste l’esperimento?
Si preleva il plasma da pazienti che hanno superato la fase critica e sono tornati sani e lo si trasfonde in persone ancora ammalate.“Il momento giusto per immetterlo è ad uno stadio preciso della malattia: si hanno già delle manifestazioni gravi, come la scarsa ossigenazione, si è sottoposti a ventilazione assistita con casco C-pap, ma non si è ancora intubati”.
La scelta del momento per iniziare la terapia non è secondaria “perché abbiamo imparato che con questa malattia ci si può aggravare anche nel giro di poche ore. E che questo processo a un certo punto diventa irreversibile”. Quando la cura funziona, invece, si osserva una “regressione”: “Sembra quasi che riusciamo a tenere il paziente per mano e a tirarlo fuori dal baratro”, constata con emozione il dottor Franchini.
Al momento la sperimentazione è iniziata a Mantova su 20 pazienti, “siamo partiti con 7 ma se il protocollo funzionerà vorremmo arrivare a proporla ad una platea ampia”.
Attualmente nell’ospedale della città ci sono 370 ricoverati Covid: “La struttura è praticamente stata rivoluzionata, ormai siamo un ospedale dedicato. Ogni giorno si riunisce una task force con direzione e medici che rimane attiva dalle 3 a mezzanotte e gestisce l’emergenza, continuamente spostando personale e aggiornando le terapie. Siamo diventati una grande famiglia. Questa disgrazia ha cambiato profondamente le persone all’interno degli ospedali”.
Se inizialmente il plasma veniva da Pavia, capofila del progetto, ora “Mantova ha i suoi donatori. In particolare abbiamo attinto dai nominativi dell’Avis”, ovvero persone che donavano il sangue già prima, poi sono state contagiate dal virus, ma sono guarite. In tutto, ad ora, sono 30 ad aver dato la loro disponibilità, ma nella provincia il serbatoio potrebbe essere ampio (ci sono 18 mila iscritti).
La trasfusione, comunque, ha sempre una minima soglia di pericolo: “Si tratta sempre di un prodotto biologico di origine umana, che va prelevato in sicurezza e testato”.
Infine, lo studio che si sta conducendo “non è randomizzato, ovvero non ha un braccio di controllo”, precisa il dottore, “ma in questa fase è un aspetto positivo perché in una situazione di guerra dobbiamo valutare i risultati in modo veloce. I primi, provvisori, arriveranno tra 20 giorni, quelli definitivi tra un mese”. Insomma “c’è speranza”.