Gli italiani erano andati a dormire tranquilli la notte di giovedì 20 febbraio. Da settimane il numero totale dei casi di coronavirus nella penisola era fermo a tre, e tutti importati: la coppia di turisti cinesi ricoverata allo Spallanzani da fine gennaio e già in via di guarigione e il ricercatore italiano tornato da Wuhan e praticamente asintomatico.
I controlli a tappeto negli aeroporti e la chiusura dei voli dalla Cina, dove peraltro i contagi erano già in netto calo, lasciavano pensare che il peggio fosse passato. Solo che, mentre sorvegliavamo la porta di casa ben armati, alle nostre spalle il virus entrava dalla finestra, e nel posto meno prevedibile.
“Ho pensato all’impensabile”, dirà la dottoressa che ha intuito per prima. Un mese fa l’Italia entra nell’emergenza coronavirus scoprendo attonita che c’è un focolaio a Codogno, operoso paese del Lodigiano. Il caso del paziente 1, Mattia, 38enne sportivo e dinamico, finito in terapia intensiva dopo aver contagiato la moglie incinta e un amico inizia subito a mettere in discussione le certezze che virologi, epidemiologi ed esperti vari avevano per settimane divulgato.
Soprattutto due, le più importanti: il virus non risparmia i più giovani, anche in forma grave, e soprattutto si propaga molto di più attraverso gli asintomatici che i sintomatici, se non altro per una questione numerica. L’avanguardia aggressiva e letale del virus, quella che porta alle gravi polmoniti interstiziali bilaterali, da sola non riuscirebbe infatti ad avere un tasso di contagiosità così elevato: si avvale di nutrite retrovie, composte di migliaia e migliaia di contagiati asintomatici o con pochissimi sintomi, proprio come Mattia all'inizio prima di aggravarsi.
E così i contagiati crescono in misura esponenziale: il 22 febbraio i casi sono già 79, ci sono già due morti e i focolai sono già due: a Codogno e a Vo’ Euganeo, paesino del Padovano dove addirittura il cuore del focolaio è il bar del paese.
Inizia la crescita furiosa dei contagiati, che diventano 200, poi 1.000, 2.000 e così via, estendendo la mappa del virus a Emilia Romagna, Piemonte, Marche, giù a Roma e poi al Sud, fino a toccare il 3 marzo la Val d’Aosta e completare così il giro di tutte le regioni italiane.
E scattano le zone rosse: a Codogno e Vo’ Euganeo si chiude tutto, e inizia una fase di tracciatura dei possibili positivi con l’uso massiccio di tamponi. Dopo alcuni giorni di panico arriva un cambio di rotta che rivisto oggi sembra già surreale: si deve evitare che l’Italia passi per essere l’untore d’Europa, e di perdere miliardi di euro, quindi contrordine, riaprire tutto, aperitivi a Milano, rassicurazioni anche da scienziati competenti (il mantra è “si tratta di una sindrome simil-influenzale, un po’ più aggressiva”).
Il 28 febbraio viene cambiato il criterio di identificazione dei casi positivi: i tamponi si faranno solo a soggetti già sintomatici. Ma il contagio viaggia al ritmo di decine poi centinaia di nuovi casi al giorno: dopo una settimana siamo già a 650 malati, il primo marzo superiamo quota mille.
Mentre i morti aumentano, e le terapie intensive vanno in sofferenza. Scatta la fase 2: le “zone arancioni” in Lombardia e Veneto, dove vengono chiuse le scuole. Il 4 marzo il Governo annuncia la chiusura di scuole e università su tutto il territorio nazionale, per due settimane, chiusura poi prorogata fino al 3 aprile (ma è praticamente certo un ulteriore slittamento).
L’8 marzo la situazione si profila molto grave: i contagiati sono già 4.600, centinaia i morti, gli ospedali lombardi vanno in sofferenza, anche perché le statistiche sono choc: il tasso di ricovero in terapia intensiva è più alto della Cina, e soprattutto il tasso di letalità, che viaggia sempre ben oltre il 2-3% cinese, e oggi è attestato al 7,5%.
È la settimana che porta alla decisione storica annunciata dal premier Conte in un drammatico discorso tv: è l’11 marzo, il giorno del decreto “Io sto a casa”: l’epidemia cresce troppo, “non c’è più tempo”, avverte Conte, e tutta l’Italia diventa zona rossa. Chiusi molti negozi e locali (stretta poi rafforzata in un nuovo decreto), vietato uscire di casa se non per motivi essenziali, controlli sul territorio.
La parola d’ordine è distanziamento sociale: “Distanti ma uniti”. Vengono sospese le comuni attività commerciali al dettaglio, i servizi di ristorazione, sono vietati gli assembramenti di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Per spostarsi serve un’autocertificazione, ma saranno decine di migliaia le denunce.
È il periodo attuale, la fase del tentativo di contenimento dell’epidemia. È il periodo dei canti ai balconi, dei meme, delle foto e dei video di sportivi e attori a casa, giornate scandite dalla paura, dalla noia, dal bollettino quotidiano delle 18 in Protezione Civile dove, però, i dati ancora non sono quelli attesi.
L’11 marzo si superano i 10 mila casi, il 15 marzo i 20 mila, due giorni dopo i 30 mila. In Lombardia la situazione è al limite, e mentre nelle primissime zone rosse i contagi calano in altre province, soprattutto Bergamo e Brescia, il numero di contagiati e di morti diventa impressionante, con tassi di letalità fuori scala.
Sono i giorni del dramma che si fa epocale: mentre il contagio si diffonde in Europa e nel mondo e le borse crollano, gli italiani assistono alle immagini del Papa che a piedi, lungo via del Corso, si reca in un piccolo santuario mariano per chiedere la fine del flagello, ma anche a quelle del corteo di carri militari che portano via da Bergamo, città martire, decine e decine di bare per le quali non c’è più posto.
Abbiamo visto morire i medici a decine (ormai siamo sui 3 mila operatori sanitari contagiati), le mascherine che scarseggiano, e poi la mobilitazione per aggiungere posti letto su posti letto, fino agli ospedali da campo e a progetti più strutturali come quello dell’ospedale alla Fiera di Milano.
Oggi, un mese dopo, sappiamo molto di più sul virus, almeno. E’ aggressivo, letale, molto contagioso, subdolo, si nasconde negli asintomatici ma anche negli oggetti, sopravvive per ore e giorni su plastica e cartoni, ha tempi lunghissimi, il che impedisce di seguire con precisione l’andamento della malattia: lunga l’incubazione, fino a due settimane, e lungo il periodo tra i primi sintomi e l’eventuale aggravamento, in media altri 7-8 giorni.
Un decesso di oggi, in pratica, riguarda una persona che potrebbe essere venuta a contatto con il virus tre settimane fa. Sappiamo che colpisce in maniera seria prevalentemente gli anziani, ma non solo: il 2% delle vittime ha meno di 59 anni, e non sono pochissimi i quarantenni o cinquantenni che finiscono intubati. Dopo un mese e oltre 40 mila casi, con 3.500 vittime, ancora non sappiamo però la cosa più importante: quando finirà.