“Alle cinque e mezza del mattino, quando gli animi si erano calmati e tutti dormivano, mi ha scosso come l’allarme di una bomba e ho visto una luce rossa che lampeggiava. Non ho mai sentito nulla del genere in 30 anni di professione. Siamo corsi tutti a cercare di capire cosa fosse successo. Abbiamo acceso le luci e ci siamo accorti che eravamo in riserva di ossigeno”. Maria Cristina Settembrese, 53 anni, infermiera infettivologa all’ospedale San Paolo di Milano, racconta il suo turno di notte nel reparto di terapia subintensiva dove tutti i letti sono occupati da malati di coronavirus.
“Tra noi, la rianimazione e altri due reparti dedicati al Covid si era consumato quasi tutto l’ossigeno dell’ospedale. Avevamo un’ora di autonomia. Mentre il medico di turno ci invitava a stare tranquille, io e le mie colleghe ci siamo guardate e abbiamo pensate chi rianimare per primo, nel caso, pensando ai più giovani, di 48, 50 e 61 anni”. Per fortuna il rimedio c’era e quello è stato solo uno dei pensieri foschi che attraversano una notte in un reparto “diventato un luogo di guerra”: “Abbiamo chiamato l’ufficio tecnico e, nel giro di mezz’ora, sono arrivate due squadre. Hanno messo l’ossigeno nel pilone davanti all’ospedale che mi sono sempre chiesta a cosa servisse. I pazienti non si resi conto quasi di nulla, il casco che hanno in testa fa un rumore devastante per loro e anche per noi. E poi suona sempre e quando suona dobbiamo correre”.
Due notti fa, Maria Cristina e le sue due colleghe, più lo pneumologo di turno, hanno assistito da soli 15 pazienti: dieci sotto al casco più grande, per pazienti in condizioni critiche, due con quello più piccolo, e “tre anziani sotto morfina”, con nessuna speranza di sopravvivere. Dai 50 agli 80 anni “con una prevalenza di 60enni”. “I caschi suonano - spiega - perché appena uno si muove un po’ perde un pochino d’aria e il casco ti avvisa che c’è poco ossigeno. Non glielo togliamo mai perché così il polmone resta sempre esteso e ossigenato”. Il suo lo definisce “il reparto purgatorio, tra quello della rianimazione, al piano di sopra, e quello sotto, riservato a coloro i quali hanno una prognosi più favorevole e vanno verso la dimissione. “Qualche giorno fa, abbiamo mandato in rianimazione un 42enne. Mentre gli stringevo la mano, lui mi ha implorata: 'Ditemi che mi sveglio, ho due bambine a casa. La mia mascherina si è riempita di lacrime. Nella mia vita da infermiera, ho pianto una volta a 18 anni e qualche volta quando sono mancati pazienti di lungo corso, a cui mi ero affezionata. Ora invece si piange tutti i giorni, soprattutto quando devi scrivere tre lettere: NCR. Non candidato alla rianimazione”.
La notte sembra più lunga da quando c’è il coronavirus. “Io e le mie colleghe siamo una squadra e facciamo staffetta. Una sta dentro e le altre due fuori, tutte bardate per proteggerci quando entriamo e poi quando usciamo ci si spoglia, è un continuo vestirci e spogliarci. Nelle stanze in isolamento non deve entrare nulla. Chi è dentro passa a chi è fuori le cose che sono infette, dalla flebo al bicchiere d’acqua. La temperatura dei pazienti la scriviamo sul vetro, poi arriverà sul pc del medico”.
Spesso non si dorme, non si mangia, non si beve. “Prendiamo degli integratori per tenerci su. Andare in cucina è quasi impossibile perché in un minuto e mezzo può succedere che il paziente perda ossigeno e vada in crisi. Quando mangiamo lo facciamo in corridoio: una di noi, senza bardatura, ci imbocca. Degli anonimi donatori ci hanno regalato patatine e merendine, con un biglietto: 'Lo sappiamo che mangiate poco'”. I familiari dei malati non ci sono perché devono stare in quarantena, "io ho chiesto a mia figlia e alle sua amiche di fare una colletta e comprare quello di cui hanno bisogno, come le creme per la schiena”.
Ma chi ama quei malati trova il modo di esserci. “Mi è arrivata una telefonata alle sei del mattino. ‘Pronto, malattie infettive?’. ‘Si’. ‘Sono la figlia del signor Giuseppe (nome di fantasia, ndr)’. ‘Non si preoccupi e vada a dormire, suo padre sta bene, ha trascorso una notte tranquilla’. ‘Mi deve fare un favore. Papà ha perso gli occhiali al pronto soccorso e fa fatica a scrivermi i messaggi da sotto il casco, vorrebbe salutare il nipotino. Però ha una lente di ingrandimento nel suo zaino, gliela può dare?’.”. Come dire di no. “Gliel’ho consegnata e l’ho preso in giro perché sembrava Sherlock Holmes. Mi ha fatto ok col dito e mi ha mandato un bacio da sotto il casco”.
Di questa esperienza, Maria Cristina ricorderà “con stupore” gli sguardi: “E’ l’unico modo per comunicare tra noi col volto coperto e loro sotto il casco. E riusciamo a dirci tutto. Quando vanno in crisi, gli tocco le gambe, perché il resto del corpo è pieno di fili”. L’infermiera ha tre sogni: “Avere più presidi per proteggerci in reparto e l’aiuto di altri colleghi, siamo al limite delle forze. Avere uno stipendio più alto per chi fa la mia professione, che ora ci sentiamo umiliate per quello che prendiamo rispetto alle nostre responsabilità. E, quando sarà finito tutto, andare a Mars Alam e davanti al mare dimenticare tutto”.