Nemmeno il più superficiale degli immunologi della domenica ha avuto, in questi giorni di febbri virali insorte in Cina, il coraggio di tirare in ballo la Via della Seta rediviva che il governo di Xi Jinping ha messo al centro dei suoi progetti di crescita, non solo economica.
Di autostrada commerciale si tratta, ma questo non vuol dire: lo scambio dei servizi digitali è pari se non maggiore allo scambio dei beni, con piena garanzia per la salute pubblica. E poi si sa, come è stato gridato ai quattro venti, che il contagio le merci non le sfiora nemmeno. Quella Seta la si può maneggiare senza timore di restarne infetti.
All'inizio fu la peste
Eppure colpisce come il coronavirus si sia manifestato, tra tutti gli angoli della Terra che ci sono a disposizione, prima null’Hubei e poi in Italia: i due terminali delle rotte battute da Marco Polo e da generazioni di mercanti mossi da spirito d’avventura come da sete di guadagni. Era un momento che vedeva l’aprirsi degli orizzonti economici italiani ed europei ad una dimensione intercontinentale. E qui scatta l’inevitabile paragone: storico, geografico, economico. Virologico.
Perché se c’è una cosa che colpisce, questa è il ripetersi del risultato dell’addizione corrispondente alla somma degli addendi. In matematica è scontato, nella Storia non lo è per nulla. Stavolta, invece, gli elementi messi insieme danno il medesimo esito: centralità geografica più apertura delle economie mondiali più insorgere del morbo uguale epidemia in Italia, proveniente dall’altra parte del mondo.
È già successo, e non è una bella notizia. Anche perché la volta scorsa la cosa è durata un paio di secoli.
Superfluo rievocare la Peste nera del 1348: esempio facile fino all’essere scontato. Ci si ricordi solo che la si importò per vie commerciali dal Medioriente o dalla Crimea, non si sa bene, sotto forma di ratto asiatico viaggiatore clandestino di una nave mercantile. Si sostenne all’epoca si trattasse di una nave pisana, ma non è certo (oggi lo asseriscono solo a Lucca e a Firenze). È certo, piuttosto, che la Penisola fu la porta del contagio che poi dilagò nel Continente.
Il paziente zero era un intero esercito
Tempo un paio d’anni e la popolazione europea si era ridotta della metà. Si interruppe una fase di espansione economica che durava da centinaia d’anni, proprio quella che aveva spinto le città italiane ad addentrarsi in Medioriente o in Crimea riportando a casa granaglie e topi, broccati ed ectoparassiti. La ripresa fu lunga e dolorosa, ma non irrealizzabile. Anzi, tempo un secolo (che all’epoca era un nanosecondo) e le città italiane finanziavano di nuovo le corti europee, ora impegnate nelle scoperte geografiche. Fu così che dalle Indie Occidentali ci arrivò insieme all’argento il treponema pallidum della sifilide.
Paziente zero: l’esercito spagnolo di Gonzalo de Cordoba. Utilizzatori finali: i francesi di Carlo VIII. Luogo del contagio: le piane ed i postriboli italiani, battuti gli uni e le altre dalle armate del conflitto franco-imperiale che nell’Italia aveva appunto la sua posta più ghiotta.
Non è un caso che la sifilide noi la chiamiamo il mal francese ed i francesi il male italiano o il morbo ispanico: la colpa è sempre degli altri. I medici dell’epoca, per non far torto a nessuno, la chiamavano il Mal de Naples, e chi rivendicava il ricco regno aragonese poi si prendeva anche il resto.
Il regalo del lanzichenecco
Prima, durante e dopo la sifilide, fu ancora peste. Peste, dal latino peius, “peggiore”. La cosa peggiore che potesse capitarti, a parte la sifilide franco-ispanica che la persona stessa di Carlo VIII, risalente dall’Italia, ebbe cura di spargere fino a raggiungere gli estremi confini del mondo conosciuto. Peste sarebbe stata ancora tante altre volte: cinque, per la precisione, nel solo Trecento, due nel Quattrocento, ancora due nel Cinquecento.
La chiamavano peste anche quando non lo era, come nel 1527 quando i lanzichenecchi luterani si cavarono la soddisfazione di mettere a sacco Roma, interrompendo l’ennesimo periodo di spensierata prosperità economica e culturale. Ma se arrivarono a sfregiare le stanze del Papa incidendo sugli affreschi, con la punta delle picche, il nome del Frate Martino, in compenso ricevettero il “morbo castrense”.
Oggi lo chiamiamo tifo petecchiale, a riconoscimento scientifico dell’essenziale ruolo svolto nella sua diffusione dal pidocchio in sostituzione della pulce. I riformati svizzeri ne vennero morsi nei loro accampamenti (di qui il nome) a Borgo Pio, e quando ripartirono per le montagne natie ebbero cura di spargere il loro ricordo in tutta Italia, ed alla fine in mezza Europa. Che fosse cattolica o protestante poco importò.
Si diceva, in quegli anni, che le Indie generassero la sifilide, ma anche la cura. Si tratta di un estratto proveniente da una pianta, il guaico. Immediatamente iniziò lo sfruttamento intensivo, con import ed export a ritmi frenetici. Una forma di arricchimento, ma non per gli indios e nemmeno per i colonizzatori iberici. Chi fece i soldi con il guaico (e non solo con quello) fu una famiglia di banchieri tedeschi, i Fugger, che contendevano ai genovesi le casse dei re di Spagna.
Ma con loro si è arrivati al canto del cigno: non di ricchezza nuova si tratta, ma di semplice accumulazione di ricchezza già esistente. I due secoli d’oro seguiti alla grande peste erano tramontati, ed i soldi dei Fugger servirono solo a far sembrare ancora più terribili le pestilenze del Seicento. Al Manzoni non toccò che descrivere una peste che si abbatte su un’Italia già in piena decadenza.
La riprova? Quella era una peste di importazione nordica: l’avevano scatenata le armate del Wallenstein in piena Guerra dei Trent’anni, seguendo l’itinerario inverso di quando era l’Italia che trainava l’economia. Sarà una magra consolazione, ma se proprio ci si deve ammalare è sempre meglio farlo perché si è i numeri uno. Sennò è solo malasorte.