Sono già parecchi anni ormai che la drammaturgia ispirata dalla vita nelle cucine dei ristoranti ha colpito l’immaginazione del pubblico. L’idea è che quel mondo lì, grazie soprattutto al successo planetario dei cooking show, abbia finalmente aperto le sue porte.
Un mondo fatto di prelibatezze, studio della materia prima, presentazioni del piatto, colori e sapori intensi. La spettacolarizzazione di un lavoro, un lavoro molto duro, più di quanto naturalmente, come dichiarato più volte da molti chef, sia possibile far vedere in tv.
Quella dello chef è una delle professioni più complesse e stressanti che esistano, ormai non è più un segreto. Orari impossibili, così come lo sono i carichi di lavoro e le responsabilità, ben maggiori rispetto a quelle che riguardano qualsiasi altra attività commerciale. “La tua vita sarà il tuo lavoro, il tuo hobby sarà il tuo lavoro” scrive sul suo sito lo chef Marco Parizzi, in una riflessione intitolata appunto “Ma sei sicuro che vuoi fare il cuoco?”. “Gli amici. dimenticali, - prosegue Parizzi - nel giro di un anno li perderai tutti, perché tu lavori quando gli altri hanno finito, e ti diverti quanto gli altri sono stanchi di divertirsi. Non potrai più fare weekend al mare, aperitivi lunghi, cinema, partitella di calcio, suonare nella band. Piano piano si dimenticheranno di te, e tu di loro. Ci soffrirai molto”, e ancora “la fidanzata ti lascerà. Ti ha conosciuto libero e disponibile, si trova un super impegnato e super stanco fidanzato. Comincerà a stancarsi di aspettarti e uscirà con le amiche, così quando sarai libero, lei sarà impegnata. Anche lei piano piano, prenderà le distanze, ma mentre per lei sarà un percorso abbastanza naturale, tu ci soffrirai molto, perché per il tuo mondo fuori dal lavoro era quel poco tempo che passavi con lei”.
E questo accade quando si ha la fortuna, guidati da una passione assolutamente necessaria, di poter fare il mestiere, prima però ci sono da considerare anni di gavetta, dura e mal retribuita (“Un cuoco alle prime armi è fortunato a non dover pagare per lavorare”, scrive sempre Parizzi). E tutto ciò potrebbe comunque non portare a nulla, non portare al raggiungimento di un sogno, magari un ristorante proprio, qualche stella Michelin appuntata sul petto o la notorietà; “avrete più probabilità di essere colpiti da un asteroide che diventare quei 10 - 20 cuochi che ce la faranno. La verità è che lavorare in un ristorante è una bella porcheria. E non si sa perché nessuno ha il coraggio di dirvelo” scriveva su La Repubblica qualche anno fa Piero Pompili, restaurant manager del ristorante Al Cambio di Bologna.
Una condizione, quella dello chef, che ha attirato anche l’attenzione della scienza psichiatrica, che si è chiesta come sia possibile affrontare una routine così complessa; “Ho iniziato a interessarmi alla psicologia e alle patologie legate agli chef quando, qualche anno fa, ho visto uno chef lavorare. Stavo lì a guardarlo e continuavo a dirmi che non era umanamente possibile che il suo cervello potesse gestire tutte quelle cose insieme e imparare a dei ritmi così veloci”, dice a Vice è Antonio Cerasa, neuroscienziato ricercatore al CNR che da qualche anno ha instaurato una collaborazione con la Federazione Italiana Cuochi finalizzata ad un progetto di ricerca.
“Di base – dice Cerasa - sappiamo che l’attività intensiva che compiono modifica il loro cervello. Alcuni lavori, chiamati “super-attività”, determinano delle richieste che il cervello non potrebbe soddisfare. Come i musicisti, per esempio o, nel nostro caso, i cuochi. La cosa non è correlata direttamente allo stress. Il cervello di chi lavora in cucina ha la zona dell’apprendimento più grande di tre volte rispetto a quello di una persona normale. Ma è chiaro che l’attività intensa, unita alle altre cose che deve gestire uno chef porta a una condizione di stress”. L’analisi, eseguita dopo aver interpellato con dei questionari circa 18mila iscritti alla Fic, continua: “I tipi di stress sono due: adattivo, che riguarda la sfera di attività frenetiche ma gestibili potenzialmente; e maladattivo, che invece è quello che porta a problemi organici, a malattie, perché si spinge il corpo e la mente oltre le proprie capacità. Secondo una ricerca di Stanford, questo tipo di stress maladattivo porta all’allontanamento dalla famiglia, a mancanza di sicurezza e al non avere controllo del proprio lavoro”.
Uno studio, il suo, che non ha lasciato spazi a troppi dubbi: è un mestiere talmente stressante che sono in tanti quelli che sentono la necessità di affidarsi ad un professionista, uno psicologo, come preteso dall’Associazione professionale cuochi italiani del Regno Unito, o un mental coach, come raccontato a Vice da uno chef molto quotato ma che ha preferito restare anonimo: “Ci sono delle volte che devi smorzare i tuoi livelli di stress diventi completamente pazzo. Non ho vizi, non fumo, non bevo, ho solo la cucina, quindi devo per forza trovare uno sfogo”.
Ma per uno che riesce a prendere in mano la situazione per affrontarla come si deve, anche, perché no, prendendo coscienza dei sacrifici ai quali si è costretti e scegliendo di appendere il grembiule al chiodo (noti i casi di due maestri come Ferran Adrià e Marco Pierre White), ce ne sono tanti che percorrono strade differenti.
Anni fa, per esempio, lo chef Gordon Ramsey in un documentario dal titolo “Cocaine” ha apertamente parlato dello smodato utilizzo di cocaina nell’industria della ristorazione, definendolo “piccolo sporco segreto dell'industria dell'ospitalità”.
Lo chef più popolare della televisione americana sostiene, riguardo l’argomento cocaina, di averne viste di ogni, comprese file dei clienti col piatto in mano davanti alla cucina per una spolverata di polvere bianca sul sufflè al posto dello zucchero a velo. Ramsey pretende in tutti i suoi ristoranti un controllo serrato dei bagni, che nessuno si permetta di andare lì a sniffare. Una lotta diventata punto fermo dopo aver perso, nel 2003, un fidato collaboratore, David Dempsey, ucciso da un’overdose di cocaina.
Sempre su Vice fu lo chef Giacomo Gironi a commentare la denuncia di Ramsey, non solo confermandola, ma raccontando di quando si rese conto dell’entità del problema, proprio in un noto ristorante di Roma, a inizio carriera: “Funzionava più o meno così: chi gestiva lo spaccio andava da chi doveva andare, prendeva quello che dove prendere e poi la smistava fra i dipendenti nel magazzino. Era un sistema sicuro. Si spacciava nel magazzino, ma solo al personale; dei clienti che cenavano al ristorante se ne occupava qualche cameriere”.
E poi chiaramente, come la cronaca in questi anni ci ha raccontato approfonditamente, c’è chi non regge e sceglie di togliersi la vita. Anthony Bourdain, Benoît Violier, Bernard Loiseau, Pierre Jaubert, Joseph Cerniglia, per citarne alcuni; in Italia Luciano Zazzeri, l’ultimo, lo scorso marzo, e poi ancora, prima di lui, Franco Colombani e Sauro Brunicardi.
Tutti chef di altissimo livello, pluristellati Michelin in qualche caso, ricchi e famosi quasi come rockstar, ma che non sono riusciti a reggere l’enorme peso. “Gli chef sono tutti tossici, alcolisti, puttanieri e artisti”, la taglia corto Leonardo Lucarelli nel suo libro “Carne Trita, l'educazione di un cuoco”, dove racconta per filo e per segno tutta la follia legata al mestiere dello chef. “Questo lavoro ti trasforma in un sociopatico” dice a Vanity Fair, “Gli orari ti uccidono, noi lavoriamo quando la gente è in vacanza. Noi ci rilassiamo quando gli altri dormono, bevendoci una birra alle quattro di notte quando al pub sono rimasti solo gli spacciatori... Per questo i cuochi sono giovani, dopo un po' non ce la fai più. In fondo la realizzazione ultima del cuoco è quella di aprire un ristorante e riuscire a uscire dalla cucina”. Nel libro Lucarelli parla anche lui degli chef come personaggi maledetti, truffatori “gonfi di cocaina, di debiti e di ego”, tant’è che, arriva a dire, “non è un ambiente dove manderei volentieri mio figlio”.