Nello scandalo di Bibbiano, tra casi unici ed episodi drammatici, è emersa anche una falla del sistema di adozione italiano. Una pratica che non costituisce una rarità, ma un problema ormai cronico: l’affido a tempo indeterminato. Nel caso di specifico di Bibbiano, in un’intercettazione telefonica, Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, prospettava affidi a tempo indeterminato ai membri di un’associazione Lgbt del Sud Italia. La Anghinolfi spiegava loro che se i genitori dei ragazzi continuavano a essere ritenuti inadeguati delle relazioni dei servizi sociali, i figli potevano anche non tornare mai dalle famiglie d’origine, rimanendo sine die con gli affidatari. Di fatto come un’adozione.
E in quel “sine die”, osserva su La Verità Francesco Borgonuovo, è racchiuso tutto il problema degli affidi a tempo indeterminato, “tutt’altro che una rarità nel nostro Paese. Anzi, si può dire che siano quasi la regola”. Secondo la relazione della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza pubblicata il 17 gennaio 2018, oggi 28.449 bambini o ragazzi di età compresa tra 0 e 17 anni sono collocati fuori dalla famiglia d’origine accolti nelle famiglie affidatarie. Nulla di strano se non fosse che la legge 149 del 2001 individua il periodo massimo di affidamento in 24 mesi, prorogabili da parte del Tribunale per i minorenni, qualora fosse ritenuto necessario. Ma in realtà, i bambini in affido da oltre due anni sono il 60%.
Quali problemi? “Per adottare un bambino, una famiglia deve affrontare un iter lungo e complesso, probabilmente fin troppo”, spiega a La Verità Marco Chistolini, psicologo e psicoterapeuta che ha pubblicato per Franco Angeli “Affido sine die e tutela dei minori”. “Sugli affidi, invece, questi controlli non ci sono”, continua. “L’unico requisito per ottenere un affido è avere 18 anni”.
E poi una valutazione psicosociale dell’affidatario. Ma al di là di questo, nessun requisito viene richiesto, in parte giustificato dal fatto che dovrebbe durare poco tempo. Sono i servizi sociali a stabilire a chi affidare i minori. Secondo Chistolini, il sistema degli affidi va rivisto, perché così come è strutturato, può diventare un’adozione mascherata ma senza i controlli necessari e gestita quasi totalmente dai servizi sociali.
Della stessa idea è anche l’associazione Ai.Bi (Amici dei bambini): “L’affido sine die va superato, perché non permette al minore di essere inserito definitivamente in una famiglia, sia essa di origine o adottiva”, spiega sul sito. Di pari passo, “favorire il mantenimento del legame affettivo‐relazionale permette al minore di sentirsi parte integrante della propria famiglia d’origine nonostante l’affidamento familiare. Il minore, infatti, pensa di essere un rifiutato dalla propria famiglia e gli incontri guidati con i genitori vanno nella direzione di cambiare questa sensazione. La conoscenza delle proprie origini è, infatti, determinante per uno sviluppo di crescita”.
Ci sono alcuni casi in cui gli affidi di durata prevedibilmente lunga sono la scelta migliore, si legge in una relazione del Tavolo Nazionale Affido pubblicata sul sito di Vita. “Sono gli affidamenti realizzati in quelle situazioni nelle quali, a volte fin da subito, si arriva a ipotizzare che vi sia la realistica impossibilità di prevedere un rientro del minore a casa, pur permanendo e valorizzando la relazione con la famiglia di origine”.
Sono soluzioni finalizzate al sostegno di quelle famiglie di origine che “presentano delle fragilità parzialmente superabili, ma che al contempo mantengono delle competenze genitoriali di cui è ritenuto opportuno che il minore continuino a beneficiare, e ci siano le premesse per una buona interazione tra le due famiglie (affidataria e affidante)”. In questo casi, dunque, la famiglia d’origine ha - o almeno dovrebbe avere - un ruolo importante, centrale, e l’affido, in questo caso appare ben diverso dall’adozione camuffata.
Ma perché l’affido sine die è così diffuso? “Ci sono molte situazioni in cui non vi è possibilità di recupero delle capacità genitoriali della famiglia d’origine, ma questa cosa non viene dichiarata e ufficializzata”, spiega Chistolini su Vita. “Tutti sanno che è inverosimile che il bambino possa rientrare nella sua famiglia in tempi utili per lui e per la sua crescita e di conseguenza avrebbe bisogno di un’altra famiglia: per diversi motivi però non si fa la dichiarazione di adottabilità. Molti ritengono interpretano la legge come se questa sancisse il diritto del minore a crescere nella propria famiglia, e quindi a fare di tutto per impedire che venga allontanato. E siccome l’adozione oggi in Italia recide legami con la famiglia biologica, c’è una enorme ritrosia a dichiarare un minore adottabile. Io direi piuttosto che il minore ha diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia a patto che questa sia sufficientemente adeguata. Bisogna intendersi: se la propria famiglia funziona bene, è il luogo migliore per crescere. Se però da mezzo questo diventa il fine, a quel punto siamo autorizzati a chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza del minore pur di mantenerlo in famiglia”.
L’affido sine die, inoltre, “permette sì al ragazzo di investire su nuove relazioni stabili ma deve rimanere sempre per così dire “disponibile” al rientro in famiglia secondo i tempi dei genitori. È una precarietà cronicizzata". La proposta di Chistolini è che “nel caso di un minore sotto i 14 anni, trascorsi 24 mesi dall’allontanamento (o eccezionalmente 36) il minore sia obbligatoriamente dichiarato adottabile e inserito in una nuova famiglia. A questo punto si pone tema delle relazioni con sua famiglia di origine: io non escludo che una relazione possa essere mantenuta, in date situazioni”.