Il suo avvocato aveva chiesto solo una cosa: farlo morire da uomo libero, senza polsi legati al letto, senza un piantone fuori dalla porta del reparto. Lo aveva chiesto l'ultima volta cinque giorni fa, con un una lettera scritta a mano alla Corte d'Appello di Milano, una volta appreso che la fine sarebbe stata molto vicina: "Il mio assistito è intubato e tenuto in vita dalla respirazione assistita - aveva scritto ai giudici - è ancora presente il drenaggio toracico, è un po' più sveglio e reattivo rispetto a ieri e tuttavia riesce a sillabare con il labiale solo poche parole mute: 'Voglio morire, voglio morire'".
Il parere positivo alla fine della detenzione da parte del procuratore generale, l'accusa, è arrivato, ma era ormai tardi perché la Corte potesse decidere: Giorgio è morto lunedì in un reparto dell'ospedale San Paolo di Milano. Da detenuto. È una battaglia per i diritti umani quella dell'avvocato Francesca Brocchi, del Foro di Milano. Rimasta l'unica persona al mondo per il suo assistito - un bergamasco di 58 anni arrestato il 23 aprile 2018 per rapina - ha cercato fino alla fine di far valere un diritto: quello per una morte libera, se pure la vita di Giorgio non lo era stata.
La storia, triste, è diventata ieri una lettera che l'avvocato Brocchi ha scritto tra le lacrime e indirizzato al guardasigilli, Alfonso Bonafede, al capo di gabinetto del ministero, oltre che al garante dei detenuti della Lombardia, "per verificare che non ci siano state violazioni dei diritti del detenuto e del malato" nella fine di Giorgio. La sua trafila comincia nell'aprile 2018, con l'arresto: qualche mese a San Vittore, fino a novembre, quando viene trasferito ad Opera.
La strana e "persistente" tosse comincia appena un mese dopo l'ingresso nel nuovo penitenziario. Bastano pochi mesi perché la malattia lo porti verso il primo collasso del polmone: ad aprile Giorgio viene ricoverato d'urgenza al Fatebenefratelli e, dopo l'asportazione del liquido pleurico, è ormai chiaro dalle analisi che nei suoi polmoni ci sono cellule cancerose.
Gli accertamenti, ovvero una Pet-Tac, dovrebbero essere eseguiti subito, ma passa un mese. Si arriva al 27 maggio, dopo le insistenti richieste dell'avvocato per avere la cartella clinica. A giugno finalmente il verdetto è chiaro: un adenocarcinoma ha colpito gli organi respiratori di Giorgio e si è esteso alle ossa.
Il 12 dello stesso mese l'avvocato deposita alla Corte d'Appello un'istanza per dimostrare che "l'attualità delle esigenze cautelari è venuta meno" ed è previsto "il differimento della pena". I giudici però prima di decidere hanno bisogno di una cartella clinica aggiornata, che sollecitano al carcere di Opera. è Giorgio stesso i primi di luglio a scrivere una lettera al suo avvocato: "L'ultima biopsia è andata bene, spero di potermi curare fuori", si augura.
Passano meno di due settimane, è il 17 luglio, quando l'Ospedale San Paolo invia finalmente la relazione: il malato non risponde alle cure; non c'è più niente da fare, l'ultima spiaggia è la terapia del dolore. È ormai chiaro che la condanna definitiva per Giorgio è stata scritta, e non da un tribunale civile. Il giorno successivo ha una crisi respiratoria, l'ultima prima che diventi necessario il ricorso alla tracheotomia e all'aiuto di una macchina respiratoria. è soprattutto in queste ultime fasi della malattia, quando ormai Giorgio è stato trasferito nel reparto rianimazione, che anche le comunicazioni tra il detenuto e il difensore diventano difficili.
L'avvocato Brocchi denuncia nella sua missiva che l'Autorità giudiziaria non viene informata punto per punto delle condizioni del detenuto. Ci sarebbe la possibilità di fargli vivere questi ultimi giorni di vita in un hospice, agli arresti domiciliari ma l'avvocato chiede qualcosa di più: chiede "un ultimo gesto di umanità e clemenza" e la revoca della misura cautelare. Chiede che possa morire da uomo libero. I tempi della giustizia però sono lunghi e, anche se il pg ha dato il suo via libera, Giorgio muore prima che la Corte d'Appello possa pronunciarsi sul suo destino.
Sarà ora un'indagine interna, avviata dal difensore civico regionale e dal garante dei detenuti, a capire se qualcuno, in questo procedimento, abbia sbagliato o magari ritardato qualcosa. Quello che resta è però una domanda sul senso della libertà e sulla sua restrizione ai tempi di un diffuso giustizialismo.
Questo detenuto, come altri, aveva certamente sbagliato molto, aveva arrecato un danno alla comunità e ne stava pagando il prezzo con la mancata libertà. In un momento "solenne" come quello della morte aveva chiesto alla giustizia e alla società di ritrovare un sentimento dimenticato: quello che i latini chiamavano 'pietas'.
Non c'è stato il tempo di capire se la giustizia e la società avrebbero risposto dimostrando di averlo ancora.