“Chiamo a testimoniare Alexa”. Non giurerà alzando la mano destra, perché mani non è ha. Ma l'assistente digitale di Amazon potrebbe diventare un teste chiave in un caso di omicidio. Un giudice del New Hampshire ha chiesto al gruppo di Jeff Bezos di consegnare le registrazioni effettuate da Echo (l'altoparlante animato da Alexa) per cercare di far luce su un omicidio avvenuto lo scorso anno nella cittadina di Farmington. Il caso apre diverse questioni. Riguarda infatti la possibilità di utilizzare testimonianze digitali, ma anche il tema della privacy degli utenti e quella della trasparenza dei grandi produttori.
Il “caso Alexa”
L'imputato è Timothy Verrill ed è accusato dell'omicidio di due donne, Christine Sullivan e Jenna Pellegrini. Incrociando testimonianze e telecamere di sicurezza, gli inquirenti avrebbero appurato che Verrill conoscesse le vittime e fosse – al momento del delitto - nelle vicinanze della casa dove sono stati ritrovati i loro corpi.
All'interno dell'abitazione, in cucina e non lontano da dove le donne sarebbero state uccise, c'era un Amazon Echo. Che, secondo le indagini, potrebbe avere (più o meno volontariamente) registrato qualcosa. Non è scontato. Ma non è escluso, visto che si attiva e registra dopo aver ascoltato alcuni comandi specifici: "Alexa", "Echo", "computer" e "Amazon". In questo caso, parole e rumori sarebbero depositati su un server della società. Alexa può essere un testimone oculare?
I precedenti: Apple e Fitbit
Il gruppo di Seattle, al momento, resiste. Ha dichiarato alla testata americana Vox che “non rilascerà le informazioni sui clienti senza una richiesta legale valida e vincolante”. E comunque dirà no a “richieste inappropriate”. Per almeno due motivi. Il primo riguarda la privacy degli utenti: le società tecnologiche sono restie perché aprire una “porta” alle forze dell'ordine vuol dire creare un precedente che renderebbe possibile spiare in modo arbitrario. Basti pensare alle indagine sul terrorismo, che si rivolgono prevalentemente a determinati gruppi etnici. Il problema non è nuovo.
Nel 2015, l'Fbi chiese a Apple si sbloccare l'iPhone di uno dei due responsabili della strage di San Bernardino perché sospettato di avere legami con l'Isis. La Mela si negò. Il ceo Tim Cook disse che il via libera sarebbe stato “una minaccia per i clienti” perché il governo avrebbe potuto utilizzare lo stesso metodo “contro chiunque”.
Fitbit ammette invece nella propria informativa sulla privacy la possibilità di fornire dati in caso di richieste legali. Ha accettato di condividere con la polizia le informazioni registrate dal bracciale elettronico indossato dalla ventenne Mollie Tibbetts al momento della scomparsa. Era uscita per una corsetta ed è stata uccisa, anche se l'assassino è poi stato catturato grazie a un metodo più tradizionale: un video di sorveglianza.
Un dispositivo Fitbit si è però dimostrato decisivo in un caso dello scorso ottobre: lo indossava una vittima. I movimenti tracciati hanno incastrato il marito perché la sua versione non era coerente con quella dei percorsi del Fitbit. Non è la prima volta che i maggiordomi digitali vengono trascinati in aula. Già nel 2017 Echo è stata citata come “testimone” perché presente su una scena del crimine in Arkansas. Amazon si era opposta e ha dato il proprio nulla osta solo dopo aver ricevuto il consenso dell'indagato (poi scagionato).
La trasparenza dei produttori
Le resistenze di Amazon derivano però anche da altro: la volontà di mantenere la propria privacy, oltre a quella degli utenti. Gli smart speaker sono orecchie in un'abitazione privata. E non è ancora chiaro cosa ascoltino. Lo scorso maggio, una donna di Portland ha scoperto di essere stata registrata mentre discuteva con il marito. Echo ha catturato la conversazione e l'ha inviata ad alcuni suoi contatti WhatsApp. Amazon si è giustificata dicendo che, a volte, gli smart speaker possono scambiare rumori e parole per i comandi che attivano la registrazione. È quindi molto probabile che sui server del gruppo ci sia molto di più di quanto gli utenti pensino.