“Per celebrarlo dovrei indossare una veste rossa come il sangue invece che bianca perché il suo pontificato fu un vero e proprio martirio”. Queste parole su Giovanni Battista Montini pronunciate da Papa Francesco, poco prima di proclamare santo Paolo VI, spiegano bene le sofferenze vissute da chi guidò la Chiesa in un tempo di passaggio, quello del Concilio Vaticano II e della sua immediata applicazione, che non a caso coincise con i sommovimenti sociali del 1968.
Il Papa della solitudine
“La mia posizione è unica. Vale a dire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini. Come una statua sopra una guglia, anzi una persona viva, quale io sono... Anche Gesù fu solo sulla Croce...Non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore che mi esoneri dal mio dovere. E soffrire solo... Io e Dio”, confidò in uno scritto privato il Pontefice scomparso nel 1978.
Pace con il mondo moderno
Fedele collaboratore di Pio XI e soprattutto di Pio XII, del quale era stato prima sostituto alla Segreteria di Stato e poi pro-segretario di Stato, il cardinale Giovanni Battista Montini era stato nominato arcivescovo di Milano alla fine del 1954, dopo la morte del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. Nel suo primo discorso come successore di Sant’Ambrogio aveva auspicato la pacificazione della “tradizione cattolica italiana con l'umanesimo buono della vita moderna”, e questa sarà una delle chiavi di lettura del suo pontificato.
Francesco non dimentica
Di carattere piuttosto timido e riservato, Paolo VI era un uomo capace di controllare completamente le sue emozioni e soprattutto di soffrire in silenzio per la Chiesa. “Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio - scrisse il giorno dopo la chiusura del Concilio - non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva”.
Paolo VI è stato definito il Papa dimenticato. Non però dall’attuale successore Francesco, che per descrivere la “Chiesa povera per i poveri” alla cui ricostruzione aspira cita continuamente il suo predecessore bresciano. L’eredità montiniana si intreccia infatti con le radici conciliari di Francesco. Il nodo è il Vaticano II, le resistenze e le incomprensioni incontrate da Paolo VI sia in ambienti conservatori sia in quelli progressisti, un clima che rese molto faticosa l’internazionalizzazione della Curia Romana con l’istituzione di nuovi Dicasteri e soprattutto l’istituzione del Sinodo dei Vescovi.
Quando applicare il Concilio scontentava tutti
Il cardinale Giovanni Angelo Becciu,il prefetto della Congregazione dei santi che domani proporrà a Papa Francesco la canonizzazione del suo predecessore, ha evocato le incomprensioni che il Papa bresciano ebbe con i suoi più stretti collaboratori, in particolare con il cardinale Sunens, che gli era personalmente amico, ma contestava la lentezza con la quale venivano applicate le riforme richieste dal Concilio. E con il cardinale Tisserant che gli rimproverò pubblicamente di aver escluso gli ultraottantenni dal Conclave.
“Paolo VI – ha ricordato Becciu – ha conosciuto personalmente i grandi drammi del XX secolo: le due Guerre Mondiali, i sistemi totalitari, e poi la violenza estrema del terrorismo. Ma non mancarono le spinose questioni anche all’interno della comunità cristiana: gli anni dell’immediato post-concilio furono i più difficili, ma se Paolo VI certo non era il Papa del sorriso, aveva una serenità interiore che gli permetteva di affrontare tutte le situazioni, come si è visto con il suo appello alle Brigate Rosse per salvare la vita ad Aldo Moro. Ma, in tutte queste vicende, fu costantemente sostenuto da quello Spirito di Cristo che alimentava la sua vita interiore e le innumerevoli e coraggiose iniziative”.
Quell’appello ignorato
La vaticanista Maria Antonietta Calabrò ha raccontato nel suo libro sull’affaire Moro la “trattativa vaticana” per salvare lo statista rapito dalle Br. Ciò avvenne certo attraverso il commovente appello agli “uomini delle Brigate Rosse” scritto in ginocchio dal Papa (al quale tuttavia fu impedito dal Governo italiano di schierarsi a favore della liberazione di terroristi detenuti, non colpevoli di fatti di sangue) ma anche mediante la disponibilità al pagare 10 miliardi di lire offerti da un imprenditore israeliano.
A rendere un vero Calvario quella vicenda c’era stata anche la partecipazione al sequestro Moro di Alessio Casimirri, figlio di Luciano, giornalista dell’Osservatore Romano e amico personale del pontefice. I 15 anni del Pontificato, insomma, furono assai tormentati, e il cammino delle sue riforme ostacolato come accade oggi a Francesco.
E Marinaro svelò il furto
Del resto, come il Papa attuale, anche Paolo VI non aveva proprio un carattere facile, e qualche volta ne avevano fatto le spese i giornalisti. Ad esempio quando aveva deciso di convocare in gran segreto tutti i nunzi del mondo. E si ritrovò la notizia su un settimanale, firmata dall’attuale decano della Sala Stampa Giampaolo Iorio. Quella volta a pagare per l’arrabbiatura papale fu il suo orologio da polso, andato infranto mentre sbatteva il pugno sullo scrittoio. Poi subì un furto nell’Appartamento e voleva che non si sapesse (anche per poter perdonare i dipendenti infedeli) ma l’Agi lo scrisse e il vaticanista di allora, Nicolò Marinaro, si ritrovò pubblicamente rimproverato dall’Osservatore Romano, salvo poi assistere in incognito al processo penale per quel furto che “non c’era mai stato”.