Duecento anni fa, in netto anticipo sulle richieste di Cavour, nasceva il primo Italiano. Italiano in tutto e per tutto, anche se l’Italia era ancora lungi dall’esser fatta: vispo, furbo, intelligente, gran maneggiatore dei destini propri e altrui, con una certa tendenza al rimorchio (e gravi conseguenze dovute alla stessa) come anche all’avventura. Voltagabbana, un pizzico ribaldo.
Un santo in paradiso
Era il 4 ottobre del 1818, giorno di San Francesco, e fu così che il commerciante di granaglie Crispi Tommaso, di Ribera in provincia di Agrigento guardò la consorte Genova Giuseppa, di anni 27, e decise che il fantolino avrebbe dovuto chiamarsi secondo il calendario. Un santo in paradiso è sempre meglio averlo. E al mondo venne Francesco Crispi, che in capo a qualche decennio avrebbe portato al suo Paese il meglio e il peggio di quello che ci si potrebbe aspettare. Splendori e miserie di una Grande Cortigiana che avrebbe giocato per la Corona sapendo di essere repubblicana, per la Germania occhieggiando maliarda all’Inghilterra, da Sinistra ma comportandosi da Destra. Grande proletaria ma, trasformisticamente, voluttuosa aspirante donna di province. Specie se d’Oltremare.
Storia di un italiano
Crispi era un giovanotto di belle speranze e parlar sciolto. Logico che il padre, di condizioni agiate, lo mandasse a studiar giurisprudenza a Napoli, che all’epoca era come dire ora Oxford o per lo meno Georgetown. Qui lui imparò che studiare è importante per la tua posizione, ma se la posizione te la vuoi fare per davvero devi anche agitarti. Divenne allora mazziniano ascendente garibaldino.
Complici i tempi immaturi, finì in esilio per mezza Europa, a cominciare dalla non lontana Malta per passare in Portogallo ed anche oltre. Sviluppò allora, a fianco del carisma naturale, una grande passione per la politica internazionale, che lui interpretò però non come avrebbe fatto un lord inglese (un Grande Gioco per l’egemonia nel Mediterraneo) o uno Junker tedesco (pura volontà di potenza), ma come un mercante italiano medievale. Cioè: si va dove ci conviene, e poi si vedrà.
Rientrato in Italia, si dette inevitabilmente alla politica oltre che all’esercizio dell’avvocatura. Ribelle agli schemi, sposò la causa della sinistra storica, ma non senza aver prima dato un dispiacere e qualcosa di più a Mazzini e Garibaldi per l’aver abbandonato la causa dell’Italia repubblicana. La partita risorgimentale l’avevano vinta il Re e Cavour, e lui non era certo tipo da fare le crociate. Anzi, era laicissimo ed antipapalino.
Iniziò così una folgorante carriera parlamentare. Seppe giocare con le pieghe delle leggi elettorali, conquistarsi un manipolo di fedelissimi e tentò la scalata al potere. Ma prima dovette risolvere un paio di questioni domestiche.
Letto a tre piazze
Il ragazzo, infatti, era esuberante e non poco. Non si tratta qui del figlio illegittimo avuto fuori del matrimonio, che egli ebbe la signorilità di riconoscere. Si tratta proprio del matrimonio. Anzi, dei matrimoni.
La storia è questa: quando era a Malta, giovanotto in costante tensione ideale, aveva conosciuto una donna savoiarda di umili natali ma grandi doti femminili, Rosalia Montmasson. Era anche una donna audace, protagonista di missioni spericolate e partecipe attiva della Spedizione dei Mille. Nel 1854 i due convolarono a giuste nozze. Giuste in realtà solo per la Chiesa, perché entrambi non erano esattamente, essendo esiliati, nelle condizioni di presentarsi al municipio di Agrigento o a quello di Pinerolo. L’aborrita cerimonia religiosa era l’unica via possibile, una volta tralasciati un paio di particolari burocratici di per sé di indubbio valore legale.
Vent’anni dopo il Crispi ormai affermato politico e avvocato conosce Lina Barbagallo, donna di illustri natali e grandi conoscenze a corte. Lui è già ministro dell’interno, si badi bene, e Rosalia è lungi dall’averlo lasciato vedovo. Vuoi un’interpretazione elastica del diritto di famiglia allora vigente, vuoi qualche cavillo giuridico che ogni avvocato sa trovare ovunque (figuriamoci in un matrimonio non celebrato civilmente) ma il Ministro si ritrova coniugato con la Barbagallo, e che la Montmasson si arrangi.
La cosa, però, finisce all’orecchio di uno dei tanti giornali delle opposizioni, che allora fiorivano e facevano news più o meno fake come tanti siti di ora. Ed ecco il Ministro dell’interno, titolare della tenuta sociale e politica dello stato, accusato di bigamia. Non doveva trattarsi di accuse del tutto infondate, se quel ministro tempo un mese ed era dimissionario.
Altri si sarebbero arresi, godendosi la pensione e i proventi di un palazzo costruito nel centro di Firenze quando questa era Capitale. Lui non era di quella pasta, e aspettò il momento giusto, che non tardò ad arrivare. Anzi, riesce ora in quello che aveva appena sfiorato prima: diventa presidente del consiglio. E lo fa, lui ex mazziniano, con un pugno che dire pesante non è esagerare. Stato di emergenza nella sua Sicilia, dove si verificano i sommovimenti dei Fasci, stato d’emergenza in Lunigiana. Alleanza fraterna con l’Austria, che ai tempi di Mazzini era l’arcinemica, e la Germania autoritaria di Bismark e von Caprivi. Soprattutto, espansione in cerca di un’altra sponda. E l’Italia diventa, da terra irredenta, terra irredentrice.
L’Impero colpisce ancora
Le cose però non vanno bene, perché se nel sangue italiano esiste una particella di dna che ci fa navigatori e gestori di fondachi, gli imperi coloniali sono altra cosa, soprattutto se con altri Imperi, antichi e accettati, vanno a scontrarsi. E l’Abissinia impero lo era almeno dai tempi del Prete Gianni.
Fu così che, quasi unici nella storia del colonialismo europeo, gli italiani subiscono una tremenda sconfitta militare sul campo di Adua. E per Crispi, che nel frattempo sfiora l’ottantina, è la fine della carriera. Si ritira a Napoli, a chiedere un rafforzamento dei poteri del governo ché di questo parlamentarismo non se ne può più.
È il 1896, l’alba di una nuova Italia. Che somiglia tremendamente alla vecchia, così come il primo italiano somiglia un po’ a Mussolini, un po’ a Masaniello, un po’ a Badoglio, un po’ a Razzi. Perché a lui tutti somigliamo. Un po’.