Al principio fu un’agenda, un librettino con la copertina nera sequestrato a casa di un camorrista napoletano, Giuseppe Puca, noto come 'o giappone. Una serie di fogli vergati a penna con grafia confusa, nella quale compariva un nome e un numero di telefono. Non l'unico nome di spicco di quel maxi blitz che alle prime luci dell'alba del 17 giugno 1983 segnò una svolta nella storia della Giustizia italiana, con 856 arresti in 33 province da Bolzano a Palermo. Ma quello di Enzo Tortora, di cui oggi ricorrono i 30 anni dalla morte dopo una malattia devastante, era senza dubbio il nome più popolare, tanto che il suo calvario giudiziario divise l'Italia della politica, dello spettacolo e del giornalismo.
Trovata l’agenda, l’Italia si divide
Innocentisti e colpevolisti, con nomi illustri schierati dall'una e dall'altra parte, da quello di Camilla Cederna, sicura che si trattasse di un arresto eccellente, a quelli più prudenti di Enzo Biagi e Indro Montanelli, che, dopo un'iniziale tentennamento, presero posizione nettamente a favore del giornalista, autore e conduttore televisivo. In aiuto del quale intervenne con una campagna mediatica con pochi precedenti il partito radicale di Marco Pannella.
Tortora, sembrava essere scritto su quella agenda, accanto a un recapito telefonico che però ad un controllo risulta subito essere quello della di una sartoria e non quello di una abitazione o luogo di lavoro del presentatore di Portobello.
La gogna delle manette in tv
È proprio la trasmissione più seguita d'Italia è stata in qualche modo il fulcro di un caso clamoroso di errore giudiziario cominciato quando il giudice istruttore Giorgio Fontana firma gli arresti, contestando a Enzo Tortora i reati di associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di droga. Sono le 4 del mattino quando i carabinieri portano in carcere il presentatore, esibendo a favore di telecamere l'uomo ammanettato.
Le false accuse della Nuova Camorra Organizzata
Tortora già il pomeriggio precedente era stato raggiunto da una serie di telefonate di colleghi che avevano approfittato di una fuga di notizie e che gli facevano strane domande. Contro di lui parla innanzitutto Pasquale Barra, già detenuto nel carcere di Pianosa, sicario di camorra che morirà nel 2015 e rimarrà negli annali della criminalità italiana come colui che ha ucciso il boss Francis Turatello in carcere con 40 coltellate. Ma anche Giovanni Pandico, il 'segretario' del boss della Nco Raffaele Cutolo, e poi Giovanni Melluso detto Gianni il bello, quest'ultimo pronto a verbalizzare solo qualche mese dopo l'arresto di Tortora.
Sette mesi di carcere
Complessivamente, in quei movimentati sette mesi passati da Tortora in carcere e poi durante gli anni dei tre gradi di giudizio del processo, saranno 19 le persone che diranno di averlo visto spacciare droga, tra le quali il pittore Giuseppe Margutti, già con precedenti per truffa e calunnia, e la moglie Rosalba Castellini, che raccontano agli inquirenti di averlo visto cedere sostanze stupefacenti già negli studi di Antenna Tre.
Condannato in primo grado, poi l’assoluzione
L'assoluzione, dopo una condanna in primo grado a 10 anni di carcere, in Corte d'Appello, arriverà con formula piena il 15 settembre 1986 e poi il sigillo della Cassazione il 1987. Il 15 maggio di un anno dopo Tortora muore. Muore senza sentire le scuse di Gianni Melluso, che le porgerà alle figlie in una intervista rilasciata all'Espresso nel 2010. Ma scuse non arriveranno da nessuno dei magistrati che contribuirono a quella incriminazione e carcerazione ingiusta.
Non tutti chiedono scusa
"Con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti. L’arresto era obbligatorio, non esistevano i domiciliari. La famosa telefonata al numero dell’agendina di Puca, come è scritto negli atti, fu fatta subito e rispose una sartoria. C’erano, in quel momento, altri elementi d’accusa. Vanno sempre rispettati sentenze e processi. Da pm, ho solo fatto il mio lavoro in onestà e buona fede", disse a Repubblica nel 2015 Felice Di Persia, insieme a Lucio Di Pietro pm nell'inchiesta Tortora. Che del processo mai aveva parlato prima perché "assistevo a strumentalizzazioni, spesso in cattiva fede, e disinformazione giudiziaria. Ho atteso l’assoluzione piena del Csm, che riconobbe l’onestà e la limpidezza professionale del nostro lavoro". Quell'istruttoria comunque "fu importante nella lotta alla camorra, in anni di tremenda emergenza criminale".
Solo ora un altro dei magistrati che accusarono il presentatore, Diego Marmo, ha ammesso di aver avuto torto e ha chiesto scusa.
Il centrino del camorrista detenuto
Eppure una perizia grafica aveva mostrato che quel nome sull' agendina di Puca era Tortona e non Tortora, un indizio che insieme al fatto che il numero telefonico corrispondeva a quello di una sartoria avrebbe dovuto mettere sull'avviso gli inquirenti. E poi c'era la faccenda dei centrini, quei centrini inviati da Pandico e altri detenuti a Pianosa alla redazione di Portobello perché fossero messi all'asta, per raggranellare denaro.
Nel caos della redazione, i centrini si persero e Tortora, venuto a conoscenza del problema, invio a Pandico una lettera di scuse e ottocentomila lire al risarcimento.
Sempre secondo la ricostruzione corrente di quel caso, Pandico sviluppò una forma di odio persecutorio nei confronti del presentatore e diede il via alla stura di dichiarazioni di pentiti che lo incastravano.
“Lui però era antipatico”
Proprio quelle dichiarazioni che Michele Morello, il giudice che ha riabilitato Tortora e permesso la sua assoluzione, ha passato ai raggi-x. Il suo racconto dell'inchiesta viene da una intervista a 'La storia siamo noi' trasmissione Rai. "Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico - spiega - partimmo dalla prima dichiarazione fino all'ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po' sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell'altro, che stava insieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti. Di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell'imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie... E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: 'Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi'".