C'era anche il suo nome, il primo nell'elenco, tra i ventidue destinatari dell'ordine di cattura scattato il 19 aprile scorso, ulteriore colpo al collaudato e solido sistema di protezione e di comunicazione: Matteo Messina Denaro da Castelvetrano, detto ''u siccu' ('lo smilzo'), 56 anni compiuti il 26 aprile, latitante dal 1993, da un quarto di secolo. A conferma, scrive la Dda di Palermo, del "perdurante" ruolo cruciale da lui esercitato "nell'intera provincia di Trapani e in tutta la Sicilia occidentale", così da impartire direttive, "anche attraverso rapporti epistolari", restando "punto di riferimento mafioso decisionale in relazione alle attività e agli affari illeciti più importanti gestiti da Cosa nostra nella provincia di Trapani e in altri luoghi della Sicilia". Insomma, è lui l'uomo forte di Cosa nostra. Soprattutto dopo la morte di Totò Riina.
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Zona Franca
La provincia mafiosa di Trapani - "da sempre in stretto e organico collegamento con quella palermitana" - costituisce storicamente una delle più inaccessibili roccaforti di Cosa nostra nella Sicilia occidentale, territorio in cui "la morfologia del potere mafioso" ha subito dal dopoguerra a oggi una costante evoluzione, via via espandendo l'area degli interessi illeciti, dal traffico internazionale degli stupefacenti, sino al controllo totale delle attività economiche: prima il settore edilizio e gli appalti pubblici, poi la grande distribuzione e le energie alternative. In tale quadro, il territorio della provincia di Trapani e, in particolare, i mandamenti di Castelvetrano e Mazara del Vallo, hanno assunto i connotati di vera e propria "zona franca", crocevia per illeciti traffici della più varia natura, luogo di rifugio sicuro per uomini d'onore latitanti nonché per riservati summit degli esponenti di vertice di Cosa nostra, e teatro di efferati delitti riconducibili alla strategia.
Modello Palermo
Cosa nostra trapanese, secondo l'ultimo rapporto della Dia, è dotata di una struttura organizzativa omogenea alla mafia palermitana. Identiche risultano le modalità operative, medesimi i settori d'interesse, analogo l'ordinamento gerarchico. L'organizzazione continua a essere strutturata secondo un modello verticistico, così da consentire, pur nella capillarità della sua articolazione e nella complessità del suo ordinamento, l'impostazione di strategie unitarie.
Si conferma, pertanto, l'operatività di una struttura articolata in 4 mandamenti, che raggruppano complessivamente 17 famiglie, le quali esercitano la propria influenza su uno o più centri abitati della provincia. Uno status quo che evidentemente non può prescindere dal ruolo di Messina Denaro, il quale, per quanto episodicamente emergano segnali di insofferenza rispetto alla sua minore aderenza al territorio, continua a mantenere un rilevante carisma sui suoi adepti.
Soldi e sangue
Negli anni numerose sono state le indagini, culminate nelle operazioni Golem I, Golem II, Crimiso, Campus belli, Mandamento, Eden, Eden II, Visir, poi seguite da sentenze di condanna, in gran parte divenute irrevocabili. Le più recenti dimostrano chiaramente che le redini della provincia di Trapani sono tuttora saldamente nelle mani della famiglia Messina Denaro.
L'incessante azione di contrasto, finalizzata a localizzare il latitante e a disarticolare il reticolo di protezione che gli consente tuttora di mantenere la latitanza e di 'governare' il territorio, ha indotto il capomafia a sospendere le azioni clamorose, per operare in una cornice di pace apparente, utilizzando soggetti insospettabili che hanno permesso a Cosa nostra trapanese di penetrare nel tessuto sociale ed economico, assumendo il controllo di remunerativi settori dell'economia, quali la grande distribuzione alimentare e le energie alternative. Al fine di assicurarsi un costante controllo, il boss ha privilegiato, nella scelta dei soggetti da porre al comando dell'organizzazione mafiosa, il criterio "dinastico", individuando sempre persone appartenenti alla propria cerchia familiare, affinchè il vincolo mafioso coincidesse pienamente con il vincolo di sangue.
Venerazione
Negli ultimi anni, sono stati progressivamente arrestati e poi condannati alcuni dei più stretti congiunti del latitante: prima il cognato Filippo Guttadauro, poi il fratello Salvatore Messina Denaro, quindi il cognato Vincenzo Panicola e il cugino Giovanni Filardo, poi ancora il cugino acquisito Lorenzo Cimarosa, la sorella Patrizia Messina Denaro, il nipote Francesco Guttadauro e il nipote Luca Bellomo. Nell'ultimo blitz sono stati arrestati i cognati Gaspare Como e Rosario Allegra, il primo reggente dello strategico mandamento di Castelvetrano.
Le indagini sulla rete dei 'pizzini' hanno confermato il sistematico ricorso all'intimidazione per infiltrare il tessuto economico locale, compresi i settori dell'eolico, delle scommesse e le aste giudiziarie per riprendersi i beni sequestrati. Non a caso tra gli arrestati per concorso esterno c'è il 'rè dei giochi di Trapani, Carlo Cattaneo, 33enne di Castelvetrano accusato di finanziare la latitanza. Sangue e venerazione hanno del resto garantito una latitanza che dura da 25 anni. Messina Denaro, paragonato nelle intercettazioni "Padre Pio". "Era in Calabria ed è tornato", dice un altro mafioso captato. In continuo movimento e con solidi rapporti con la 'ndrangheta. Sangue come criterio familiare, ma anche come ferocia, se è vero che gli uomini di Messina Denaro sono stati intercettati mentre applaudivano alla scelta di sequestrare e sciogliere nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, per punire il padre pentito Santino.
L'eredità: Messina denaro oltre Riina
Da marzo 2017 Messina Denaro è a giudizio a Caltanissetta per le stragi del 1992. È accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via D'Amelio. Durante l'udienza preliminare, il pm Gabriele Paci ha sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del '91 a Castelvetrano, in cui Totò Riina decise di dare il via alla strategia stragista.
Il capomafia di Castelvetrano, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Giovanni Falcone nei primi mesi del '92, missione che poi fallì. Il ruolo di mandante emerge dalle dichiarazioni di più collaboratori di giustizia, da Vincenzo Sinacori a Francesco Geraci, che negli anni hanno raccontato che il latitante trapanese reggeva Cosa nostra nella sua provincia al posto del padre, il capomafia Ciccio Messina Denaro.
Dai racconti dei pentiti emerge che avrebbe anche progettato l'attentato al giudice Borsellino quando era procuratore a Marsala. Il superlatitante avrebbe dunque ricoperto un ruolo centrale nella preparazione degli eccidi. I magistrati nisseni sono partiti dalla rilettura delle sentenze già emesse e dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, secondo i quali Messina Denaro era l'enfant prodige di Totò Riina. Fu il padre di Matteo ad affidargli il figlio quando ancora era in tenera età e Brusca, fedelissimo del capo dei capi, ha spiegato ai magistrati che fu cresciuto sulle ginocchia del boss. La procura, dunque, ha preso spunto dal legame storico fra Riina e i trapanesi e anche Antonino Giuffrè ha rivelato ai magistrati che il boss ricoprì un ruolo centrale nelle stragi, in linea con quanto stabilito dal boss corleonese. Il latitante trapanese già nel 1989 era il reggente della provincia.
Era lui a prendere tutte le decisioni più importanti. La provincia di Trapani è la terra dove Riina e Bagarella trascorrono i loro anni della latitanza. A Mazara del Vallo sono stati trovati diversi lingotti, parte del tesoro di Riina, deceduto a novembre. Vivo, vivissimo, invece, per magistrati e investigatori, è il potere del suo 'erede'. Il 13 marzo 2017, all'apertura del procedimento nei confronti del superlatitante, Paci aveva chiesto di interrogare l'imputato Messina Denaro, aggiungendo poi che si trattava di "un auspicio". La caccia continua.