Mangereste in un ristorante in cui il cibo è stato cucinato da una decina di chef positivi all’HIV? Il 50% dei canadesi non ci pensa nemmeno. Colpa dei troppi pregiudizi e dell’ignoranza su un tema così delicato. E così, Casey House, l’unica clinica del Paese interamente dedicata alla cura di pazienti con HIV o Aids, ha deciso di combattere lo stigma aprendo un ristorante in cui lo staff ai fornelli è positivo al virus dell’HIV. Il locale, unico al mondo nel suo genere, si chiama “June’s HIV+ Eatery”, ha aperto solo per due giorni (mercoledì 7 e giovedì 8 novembre) e le prenotazioni sono state subito sold out.
“Non sono un cuoco con l’HIV. Sono un cuoco”
La squadra – racconta il Guardian - è composta da 14 persone che fino a poco tempo fa non avevano mai messo piede nella cucina di un ristorante e che ora sfriggono, sfilettano e spadellano come professionisti per una schiera di 100 clienti. A prepararli sul campo, lo chef del ristorante di Toronto “Fidel Gastro’s”, Matt Basile, che ha insegnato loro a cucinare piatti come la zuppa di porro e patate thailandesi o le pappardelle al salmerino alpino. Sui loro grembiuli, il messaggio si legge forte e chiaro:
“Non sono un cuoco con l’HIV. Sono un cuoco”“Combatti a morsi i pregiudizi sull’HIV”“Giudica il cibo, non il cuoco”
Storia di Mulumba, sieropositiva da sempre
Tra i cuochi c’è anche Muluba Habanyama. 24 anni, positiva all’HIV da sempre Muluba ha perso entrambi I genitori malati di Aids. “Sono stata abituata a considerare la sieropositività come un segreto da nascondere in famiglia”. All’età di 7 anni la ragazza fu protagonist di un episodio che tutt’oggi la ferisce. “Una mia tutor mi faceva utilizzare piatti e bicchieri di plastica che poi buttava, mentre lei e suo marito usavano stoviglie di vetro”. A 19 anni, dopo aver perso anche la mamma, Muluba sprofondò nella depressione. Nel 2014 riemerse dal buio, ma ancora oggi si sente solo “la ragazza con l’HIV”. E ciò dipende dai pregiudizi. Le fa eco Trevor Stratton, 52 anni, con diagnosi di HIV da 27 anni: “Abbiamo bisogno di aiuto, di alleati, dobbiamo essere riconosciuti come parte della popolazione. Ora siamo invisibili, e questo è il nostro scopo: provare a localizzarci sulla mappa”.
7 canadesi al giorno si scoprono sieropositivi
L’idea di un ristorante ‘sieropositivo’ è nata dopo che da un recente sondaggio era emerso che solo un canadese su due dividerebbe il proprio cibo con un sieropositivo. Ne tantomeno mangerebbe qualcosa cucinato da lui. E pensare che ogni giorno 7 persone in Canada ricevono la diagnosi di positività al virus, un numero poco inferiore rispetto a quello degli anni ’80.
“E se i cuochi si tagliano in cucina?”
“La gente fa molte domande su come gestiamo l’eventualità che uno chef si tagli mentre sta cucinando”, spiega Joanne Simons. “Come in qualsiasi cucina: medichiamo la ferita, buttiamo via tutto ciò che è entrato a contatto con il sangue e puliamo le superfici. E buon senso: a prescindere che si abbia l’HIV o meno”. Poi Simons precisa: “Non c’è assolutamente alcun rischio di trasmissione nel dividere un pasto. Il virus non vive a lungo fuori dal copro umano e con la cottura muore”. Quando nel 1988 la clinica aprì i battenti, il primo paziente fu trasportato da paramedici con indosso quelle tute che proteggono da materiali pericolosi. Nonostante i progressi fatti sia nel campo medico che della conoscenza, spiega Simons, la maggior parte delle persone ancora pensa di poter contrarre l’HIV attraverso regolari contatti con persone sieropositive.