Pardon, ci siamo sbagliati: a Roma la mafia non esiste. Quella che fino al 2014 ha fatto affari (leciti e 'sporchi') con imprenditori collusi, con amministratori e politici complici, e con dirigenti d'azienda corrotti non era un'associazione di stampo mafioso. L'autorevole certificazione porta la firma dei giudici della decima sezione del tribunale di Roma che in appena tre ore di camera di consiglio hanno smantellato quello che per la Procura, e anche per la Cassazione almeno nella fase dell'emergenza cautelare, era sembrato un dato oggettivo ormai acclarato.
Fino al dicembre di tre anni fa (quando ci sono stati i primi 37 arresti) hanno agito due associazioni per delinquere 'semplici': una che faceva capo all'ex esponente di destra Massimo Carminati, con i suoi più stretti collaboratori Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Roberto Lacopo; e un'altra riconducibile sempre agli stessi Brugia e Carminati insieme con il 'ras' delle cooperative Salvatore Buzzi, Claudio Caldarelli, Nadia Cerrito, Paolo Di Ninno, Agostino Gaglianone, Alessandra Garrone, Luca Gramazio, Carlo Maria Guarany, Cristiano Guarnera, Giuseppe Ietto, Franco Panzironi, Carlo Pucci e Fabrizio Franco Testa.
Le condanne, pesantissime
Dunque, niente 416 bis e neppure l'aggravante del metodo mafioso. E niente 'Mafia Capitale', dal nome che mediaticamente era stato attribuito all'operazione dei carabinieri 'Mondo di Mezzo'. E' vero, su 46 imputati, appena cinque sono state le assoluzioni (segno che i singoli episodi delittuosi messi in luce dalla Procura hanno avuto un adeguato riscontro), così come balzano agli occhi le pesantissime condanne inflitte ad alcuni imputati come:
- Carminati (20 anni),
- Buzzi (19 anni),
- Testa (12 anni),
- Di Ninno (12 anni),
- Brugia (11 anni),
- Gramazio (11 anni)
- e Panzironi (10 anni), cui il tribunale ha attribuito, a vario titolo, una sequela di episodi corruttivi e di turbativa d'asta.
Ma non c'è dubbio che caduta l'associazione di stampo mafioso questa sentenza rappresenti una batosta terribile per i pubblici ministeri romani, uno schiaffo bruciante. Un verdetto che, secondo alcuni osservatori, rischia di segnare da oggi il punto piu' buio dell' 'era Pignatone', il capo della Procura proveniente da Palermo, con un significativo passaggio a Reggio Calabria, che la mafia (quella che uccide, che pretende il 'pizzo' e che fa attentati) l'ha conosciuta bene e combattuta.
Perché parlare di mafia era esagerato
Proprio l'altro giorno, il 'Corriere della Sera' in un articolo dedicato ai 25 anni dalla morte di Paolo Borsellino riportava l'analisi della lotta alla mafia di Giuseppe Pignatone tratta dalla prefazione alla nuova edizione di 'Codice Provenzano'. Il magistrato ricordava che nella interpretazione della Cassazione, tra gli elementi necessari per integrare il reato di associazione di tipo mafioso non figurano
- né la necessità di un gran numero di affiliati
- né una quotidiana manifestazione di atti di violenza,
- né il controllo quasi militare del territorio.
Questi elementi sono sì sintomatici dell'uso del metodo mafioso ma non ne esauriscono certo il contenuto. Ciò che veramente rileva, è piuttosto la capacità di ricorrere alla violenza per creare assoggettamento, intimidazione e omertà, in vista di fini sia leciti che illeciti unita alla consapevolezza che di tale capacità risulta acquisita in un preciso contesto: un ambiente che non deve necessariamente essere geografico, ma può anche essere sociale. Fin qui le parole di Pignatone.
Da capire perché la linea della Procura è stata rinnegata
Per molti addetti ai lavori era chiaro il riferimento a 'Mafia Capitale'. In ogni caso, il tribunale non l'ha pensata allo stesso modo e solo dalle motivazioni si comprenderà come mai la linea giurisprudenziale tracciata dalla Procura è stata rinnegata. Al collegio presieduto da Rosanna Ianniello, pronta da domani a guidare il tribunale di Terni, dopo questa massacrante esperienza professionale, le difese, in sede di arringa, chiedevano una sorta di coraggio, cancellando quello che per Procura e carabinieri del Ros era diventato una specie di mantra ("A Roma la mafia c'e'").
No, nella Capitale non c'é questa mafia che, distinta da quelle tradizionali, avrebbe avuto una sua peculiarita' e originalita'. A Roma piuttosto c'era un'associazione criminale che ha messo in piedi una grave e diffusa rete di corruttela cosi' dilagante che è riuscita a inserirsi nei gangli della pubblica amministrazione, toccando esponenti della vecchia politica comunale e regionale, alterando il destino di molti appalti, dai punti verde alle piste ciclabili, per finire al business degli immigrati. Una realtà che Salvatore Buzzi aveva riferito in tantissimi interrogatori resi durante le indagini preliminari: gli inquirenti hanno preferito non credergli ritenendo le sue dichiarazioni prive di riscontro o infondate. Il tribunale, con la sua decisione, ha fatto intendere invece che il 'ras' delle cooperative qualche verita' l'ha saputa raccontare.