A soli 30 anni, Michele ha preso un cavo e si è suicidato in casa della nonna, a Udine. A uccidere però il suo spirito, la voglia di vivere, la speranza, la dignità è stato il precariato. O almeno di questo sono convinti i genitori che hanno consegnato al Messaggero Veneto la lettera che Michele ha scritto appena prima di togliersi la vita e in cui descrive il suo stato d’animo.
Aspirante grafico, anni di stage e corsi di formazione, nessuna proposta di lavoro retribuito, il trentenne di Udine era sfiduciato. Il suo è un lungo testamento in cui fondamentalmente rivendica il diritto a chiamarsi fuori da un’esistenza che lo rendeva infelice. “Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive”, si legge nella lettera.
“Le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo”. E ancora: “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità”.
Poche ore dopo, la risposta via Facebook di Danilo Lampis, Coordinatore Nazionale presso Unione degli Studenti - sindacato studentesco. Danilo non ha mai conosciuto Michele, ma al ragazzo di Udine ha voluto dire: “hai sbagliato a suicidarti”. “Tu hai colto il grande inganno, ma ne sei rimasto imprigionato, lasciando che la tua «essenza» - come l'hai definita - continuasse ad essere misurata dalle logiche, dai test, dai riconoscimenti non pervenuti, dalle aspettative negate. Così ti sei lasciato definire "perdente", abbandonando la speranza in favore di una rabbiosa rassegnazione”.
“Ci siamo talmente abituati al fatto che questa sia l'unica realtà possibile – scrive ancora Lampis nel post - che talvolta crolliamo sotto il suo peso. Con le lacrime agli occhi, avrei voluto dirti che io sono incazzato come te, che ho compreso che la competizione, il rispetto delle gerarchie, la corsa agli studi e tutte le belle parole che ci inculcano da quando siamo bambini, sono delle gigantesche stronzate per abituarci allo sfruttamento totale delle nostre vite, ad essere felici del meno peggio e a tenerci dentro la rabbia, perché dopotutto ognuno è un individuo e deve risolvere i propri problemi da solo. E invece no, siamo noi a dover dire di no”.