Se il governo fosse chiamato solo a risolvere questioni che riguardano innovazione e startup, probabilmente un buon bookmaker non ci penserebbe neppure a quotare la sua caduta. Al Rome Startup Week un confronto tra due parlamentari di maggioranza (Luca Carabetta del M5s e Laura Cavandoli della Lega) e alcuni rappresentanti del settore è stato un momento per fare il punto su quello che è stato fatto in 7 anni di legislazione sulle startup (Startup Act), capire punti di forza e di debolezza.
Punti di forza, stando a quello che si è detto, ne sono emersi pochi: certo, si è ammesso che con la legge del 2012 si è dato il via a qualcosa, ma poi, recita l’accusa, il legislatore non ha accompagnato la crescita di queste imprese e soddisfatto la loro necessità di attrarre capitali. Su questo erano tutti d’accordo. Nessuna increspatura, nessun disappunto nei 90 minuti del panel (a cui, va detto, mancavano i parlamentari di opposizione per impegni dell’ultimo minuto).
Gianmarco Carnovale, padrone di casa e presidente di Roma Startup, in apertura del confronto ha definito lo Startup Act del 2012 “un modo tutto italiano per reinventare la ruota”. La sua tesi è: invece di copiare quello che di buono è stato fatto all’estero, si è cercata una via tutta italiana, che ha fallito. E la sponda istituzionale ha ammesso che qualcosa non va: 10.000 startup non sono un numero di cui andare fieri se poi queste società non crescono. E se in tutto fatturano 1 miliardo, che diviso 10.000 fa 100 mila euro a testa in media di fatturato (con una media di tre dipendenti, compresi i founder), è necessario ammettere che qualcosa non ha funzionato, e porvi rimedio. Questa la prima foto emersa.
Carabetta ha detto poi di essersi “confrontato spesso con Carnovale negli ultimi mesi” e di condividerne quindi le tesi: lo startup act va ripensato, l’Italia delle startup merita una fase due, e lo Stato, come in Francia e in Israele, deve essere protagonista.
Ed è quello che è stato fatto. Cavandoli dal suo canto ha ricordato gli sforzi del governo in questo senso: il 3,5% dei Piani individuali di risparmio e il fondo di venture capital annunciati dallo Sviluppo ecnomico vanno in questo senso.
E anche Alberto Fioravanti, che è sì fondatore di Digital Magics ma che al tavolo era presente come membro di Italia Startup, la più grande associazione italiana di startup, si è detto “assolutamente soddisfatto” della nuova politica immaginata dal governo, perché in grado di favorire gli investimenti, anche se, ha aggiunto, qualcosa dovrebbe essere fatto anche per il mercato delle exit - incentivare la vendita di quote di startup possedute dai fondi detassandone il guadagno fatto.
Tutti d’accordo? Sì, e senza increspature a considerare quello che è stato detto. E per certi versi potrebbe anche sembrare un buon segno. Perché, a dirla tutta, l’interesse per questo mondo delle startup sta rapidamente scemando: erano fino a qualche anno fa la promessa di dare a tutti la possibilità di crearsi un lavoro con delle buone capacità digitali (tradendo forse l’idea stessa di startup, ma è un discorso più complesso), ora invece gli entusiasmi sembrano scemati. La cinquantina scarsa di persone in sala, con metà delle sedie vuote, lo testimoniava: solo qualche anno fa, con due rappresentanti del governo e due presidenti di grasse associazioni di categoria si sarebbe dovuto prenotare il posto giorni, forse settimane prima.
Le startup, per definizione, bruciano capitali prima di trovare la strada giusta e crescere. Qui pare che finora si sia bruciato solo molto tempo, e altrettanta energia.