Partiamo da una fotografia. Milano, 1964, Bar Genis di Via Brera, artisti e intellettuali ai tavolini del locale posano per una foto di gruppo. Una sola donna. Seduta alla estrema destra, gambe accavallate, sigaretta accesa in mano, sguardo diretto verso l’obiettivo. È Nanda Vigo.
Non si può prescindere dal personaggio per capire a fondo la sua opera e la mostra di Palazzo Reale.
Nanda Vigo, architetto, designer, artista e, soprattutto, femme de caractère, non ha vita facile all’inizio della sua carriera. Dopo il liceo si iscrive ad architettura al Politecnico di Losanna per andare poi negli stati Uniti (1958) e seguire i corsi di Frank Lloyd Wright che affascinava molti per le sue creazioni. Lavora poi per un grande studio a San Francisco, ma l’esperienza statunitense non la soddisfa e torna a Milano.
Nella sua città inizia l’attività di progettazione che combina architettura, design, arte, il tutto in dialogo costante con la luce, elemento cardine dell’artista. Nanda “Vigore”, come qualcuno l’ha chiamata, già come architetto inizia a operare in territori di sconfinamento, la sua visione non si allinea mai al già fatto.
Mettere in comunicazione architettura e arte in quegli anni non è scontato, ma Nanda Vigo crede fermamente nella interdisciplinarità delle arti. Condivide questa visione con Gio Ponti con il quale collabora, tra l’altro, per la realizzazione degli interni della casa Lo scarabeo sotto la foglia a Malo (Vicenza) disegnata nel 1964. Gli interventi di Vigo, in questa casa e nelle altre a venire, mirano a far dialogare in modo armonico spazio, luce e opere d’arte.
Negli anni Sessanta non è facile inquadrare una donna così eclettica, con una visione libera da costrizioni e che va oltre le convenzioni. In quel periodo frequenta Lucio Fontana, Piero Manzoni, Enrico Castellani. Conosce e frequenta anche gli artisti del Gruppo Zero (nato in Germania nel 1961) e partecipa alle loro mostre. Nei decenni successivi Nanda Vigo prosegue la sua ricerca artistica che possiamo ricostruire nella mostra di Palazzo Reale: cinquanta anni di attività in ottanta significative opere.
Nella mostra è evidente un filo conduttore costante: la luce. Si parte dai “Cronotopi”, che Nanda Vigo inizia a realizzare negli anni Sessanta. Queste opere sono combinazioni di lastre di vetro industriale lavorato, inserite in cornici di metallo, a volte illuminati da luci al neon che ne esaltano la trasparenza e l’immaterialità. Sono essenzialmente spazio e luce.
Attraversando le sale della mostra, che si susseguono per i decenni di attività, si è attratti sia dai lavori che creano suggestivi ambienti ipnotici sia dalle opere che puntano a duplicare e frantumare lo spazio.
In Genesis 2006, la stanza è in penombra. Sulle due pareti contrapposte dialogano grandi tondi concentrici che galleggiano su una luce azzurra. Al centro dei tondi una luce rossa intensa. Sul pavimento, al centro della stanza, un altro gruppo di tondi concentrici interferisce nel dialogo delle opere alle pareti attraverso l’emissione di una luce intermittente.
In un'altra sala di grande impatto, lo spazio e la luce si spezzano e si ricompongono al passaggio dello spettatore attraverso le immagini prodotte da poliedri riflettenti, sistemati come scaglie sul pavimento, in apparente casualità. Frammentazione dello spazio e scomposizione della luce. Ma il risultato non è il caos. “La Nanda è geometria. Rigorosa.” afferma uno dei personaggi che interviene nei video presenti in mostra. Forme, geometrie ma soprattutto luce, luce sorgente, luce riflessa, luce in espansione, luce carica di energia, luce che crea spazio, uno spazio vitale, cosmico, spazio della coscienza.