Tra qualche giorno la Chiesa cattolica festeggerà il giorno più importante del suo anno liturgico: la resurrezione di Gesù Cristo. La Pasqua (dall'aramaico pasah, cioè “passare oltre”) è un periodo fondamentale per tutti i credenti perché rappresenta il passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
Nella resurrezione si annida il più profondo significato della vita religiosa dei Cristiani.
Questi densi periodi di ritualità religiosa a livello sociale creano anche un profondo spaccato tra chi sente il bisogno di consacrare il momento storico e chi invece non prova niente nei confronti di questi eventi.
Atei, agnostici o semplici non-frequentatori (cioè coloro con non hanno un chiaro sentimento) guardano con meraviglia alle ritualità dei credenti.
Quello che però molti non sanno è che a prescindere dal valore simbolico o culturale di una religione, essere religioso ha dei vantaggi “biologici” che andremo ora a conoscere.
I credenti vivono di più e meglio
Questa affermazione non riguarda una semplice definizione estratta da qualche indagine demografica o da qualche test psicologico sulla propria qualità della vita.
‘Vivono meglio’ significa che una miriade di ricerche epidemiologiche svolte in molte culture e religioni del mondo hanno dimostrato (inequivocabilmente) che la persona religiosa, rispetto agli atei, agnostici o semplici non-frequentatori è caratterizzata da:
a) un minor rischio di mortalità
b) una durata di vita superiore
c) manifestazione di minor sintomi depressivi
d) ridotta presenza di comportamenti su base ansiogena-compulsiva (bere-fumare).
Per quanto riguardo proprio la durata di vita, un recente studio americano ha quantificato in 4 anni il vantaggio biologico che la religiosità induce nella singola persona.
Ma perché accade questo? I motivi sono molteplici. Innanzitutto la vita religiosa è una vita comunitaria e, come sappiamo bene, l’essere umano è un animale sociale che ha come principale bisogno quello di stare insieme agli altri e di essere protetto.
Inoltre la vita comunitaria favorisce il soddisfacimento di un altro particolare bisogno. Come diceva il famoso Psicologo William James: “Il più profondo principio della natura umana è il disperato bisogno di essere apprezzati.”
La vita nelle comunità religiose favorisce proprio questo insieme di bisogni.
Inoltre la vita religiosa è strettamente legata a un altro tipo di comportamento che sembrerebbe essere la caratteristica principale delle persone più longeve: la cura degli altri.
Negli studi di popolazione emergeva che le persone più longeve, oltre ad essere religiose, erano anche più prodighe nelle attività di volontariato.
Occuparsi degli altri nasconde una particolare conseguenza: quella di spostare l’attenzione dai propri problemi.
Pensare a risolvere i problemi degli altri ci permette di non concentrarsi sui propri rimuovendo quindi pericolosi fenomeni di ruminazione psicologica che alla lunga possono creare problematiche di natura organica a carico del sistema gastrointestinale o cardiaco. Ma la vita religiosa nasconde altri fattori “allunga-vita”.
I digiuni, che molte religioni impongono in determinati periodi dell’anno, sappiamo già dalla letteratura scientifica che fanno bene all’organismo per combattere gli effetti ossidativi dell’invecchiamento.
Evitare particolari cibi “grassi” non fa altro che contrastare anche l’insorgenza di malattie cardiovascolari.
Ma più importanti di tutti sono le regole di vita che ogni religione impone ai propri credenti e che sono tutti volti a ridurre la componente impulsiva e autodistruttiva dell’essere umano e favorire la vita.
Infine c’è la preghiera. Il rituale della preghiera è alla base di ogni forma di religione. Quando una persona prega si sente in pace con se stesso e con il mondo, raggiungendo una forma di benessere come quello che viene descritto per altre ritualità volte alla ricerca della condizione trascendentale, come lo yoga o la meditazione. Ma cosa succede al nostro cervello quando preghiamo?
La preghiera nutre la nostra mente come il soddisfacimento dei bisogni primari
Una recente ricerca ha scoperto per la prima volta cosa accade dentro la nostra mente durante una preghiera.
Dei ricercatori americani hanno inserito 19 persone dentro la risonanza magnetica chiedendo di compiere dei compiti utili ad evocare esperienze spirituali.
Durante l’esperimento veniva chiesto loro di definire lo stato di benessere, muovendosi tra chi si sentiva bene a chi invece finiva l’esperimento piangendo per la gioia.
Quello che i ricercatori hanno scoperto è che le sensazioni legate all’esperienza mistica si associano nel cervello con l’attivazione del “reward network”. Cioè delle aree che gestiscono il soddisfacimento dei nostri bisogni primari e secondari.
Quindi pregare dal punto di vista biologico produce lo stesso effetto beneficio di una bella mangiata, dormita, o di un abbraccio di un genitore o il raggiungimento di un traguardo a lavoro. Tutto condensato in un unico atto.
Ma è una questione di personalità?
Una domanda che molti si fanno è: essere credenti o religiosi riguarda tutti gli esseri umani indistintamente oppure esiste qualche fattore di predisposizioni? La risposta è si.
Gli effetti benefici della religiosità sulla nostra salute, sembrerebbero essere associati a un particolare profilo di personalità.
Studiando oltre 700 persone divise in preti, credenti o non-credenti, ricercatori del CNR hanno dimostrato che le persone religiose in generale si distinguono dal resto della popolazione per una più marcata presenza di alcuni tratti di personalità.
Alti livelli di coscienziosità - che indica affidabilità, puntualità, capacità di auto-organizzarsi - sono presenti nei fedeli laici e nei sacerdoti soprattutto se diocesani.
L’amicalità - fattore con cui si intende la capacità di essere empatici, modesti, sensibili, altruisti e fiduciosi - è un altro tratto che caratterizza i credenti ma risulta significativamente maggiore nei sacerdoti rispetto ai laici.
Infine abbiamo l’apertura mentale; sia i fedeli laici sia i sacerdoti mostrano una chiara tendenza ad approfondire ciò che è già conosciuto, piuttosto che esplorare nuovi ambiti di conoscenza, e, per ciò che attiene ai valori, ad affidarsi ad un’autorità riconosciuta all’interno della comunità.
I dati di questa ricerca ricalcano quasi perfettamente quello che era stato precedentemente descritto per i credenti di altre religioni monoteiste.
Quindi essere religiosi (forse) è una tendenza che è già presente alla nascita. Ma se sia nato prima l’uovo (la religione) o la gallina (la personalità) non è dato saperlo.
A me non resta che augurare a tutti: Buona Pasqua!