Provate ad immaginare che una fonte autorevole sostenga che i dati sull’evasione fiscale nel nostro Paese siano frutto di calcoli sbagliati, che in realtà l’evasione in Italia praticamente non esista. Oppure, che il nostro debito pubblico sia una clamorosa svista nei conti di bilancio dello Stato, che non ci sia un euro di debito. Più virtuosi della Germania! Ecco, per valutare la notizia data dal Corriere della Sera lo scorso 6 febbraio dobbiamo ricorrere ad esempi di questa taglia: “la ricerca pubblica italiana nasconde un tesoretto di circa 4.5 miliardi”. Questo lo scoop.
Ma come? Da decenni, le rare volte che in Italia si parla di ricerca, qualunque sia l’interlocutore, il conduttore, la bandiera politica, il tema, comunque tutti concordano nella miseria di finanziamento che ad essa viene dedicato! Tutto falso! In realtà i nostri ricercatori -che sono i meno numerosi, i peggio pagati, spesso i più produttivi del mondo sviluppato-, hanno però nascosto, accumulandolo non si sa come, né dove, né quando, un tesoretto di ben 4,5 miliardi di euro!
Tullio De Mauro, uno dei maggiori linguisti italiani, recentemente scomparso, era particolarmente preoccupato di una sorta di analfabetismo di ritorno, una incapacità di molti -che pure leggono e scrivono- di “comprendere appieno” i significati delle loro letture.
I bilanci delle università sono un po' diversi, e vanno letti bene
C’è da preoccuparsi analogamente della superficialità di chi, pur non essendo avvezzo alla comprensione di documenti assai complessi, come possono essere i bilanci delle università italiane e degli enti pubblici di ricerca, ne trae un’interpretazione del tutto fallace. E ne fa motivo per aprire un contenzioso (si spera in buona fede). In realtà quelle cifre sommate maldestramente come fondi “non impegnati”, altro non sono che quote finanziarie neppure sufficienti a coprire i debiti che le nostre istituzioni di alta formazione e ricerca hanno, in quegli stessi bilanci, indicati in altre voci (affitti, mutui, servizi, spese ordinarie: le classiche uscite di bilancio).
Nel CNR, per esempio, le quote del finanziamento ordinario servono a coprire le spese di funzionamento delle strutture e del personale e senza i fondi recuperati dal mercato competitivo della ricerca (nazionale e soprattutto internazionale) non ci sarebbe possibilità di svolgere ricerche: avremmo la macchina ma non il carburante!
La verità ristabilita da Elena Cattaneo
La senatrice Cattaneo, ospitata dallo stesso quotidiano per una replica, ha ristabilito nei giorni successivi, parte di verità. Resta l’imbarazzo di assistere ad un dibattito surreale. In cui sarebbe prioritario chiedersi come riorganizzare un sistema con squilibri tanto pesanti rispetto ad un settore considerato di altissima strategicità. Chiedersi come mai l’Italia, secondo i dati del “2016 Global R&D Funding Forecast” riferiti agli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo tecnologico, della accreditata rivista R&D Magazine, sia al tredicesimo posto in valori assoluti di investimento in R&S (essendo tra i primi sette come ricchezza) e risulti molto più indietro, oltre il ventesimo posto, in percentuale sul Prodotto Interno Lordo (solo l’1.27%).
Forse sarebbe il caso che in Italia si avviasse una seria discussione sul ruolo che la conoscenza svolge nelle nostre società, su come la ricerca abbia sempre più il potere di trasformare il modo di intendere, percepire e interpretare passato, presente e futuro, di come permetta di modificare i comportamenti individuali e sociali, di come ci aiuti a definire le risorse –non solo materiali- a nostra disposizione. Se la si relega nel mondo fittizio della post-verità, rischiamo di finire a discutere di fatti (e tesoretti) non solo inesistenti, ma fuorvianti rispetto alle urgenze che il mondo ci prospetta.